Il dovere di difendere
la libertà di stampa

19 Maggio 2010

Ezio Mauro

DUNQUE da oggi chi sbaglia paga? Prendiamo in parola il presidente del Consiglio e la sua voglia improvvisa di legalità, nata dal vortice dello scandalo Scajola, dalle paure del caso Bertolaso, dal “sistema” di scambio tra appalti di Stato e favori privati che si allarga ogni giorno di più sotto le poltrone traballanti del suo governo. C’è una strada maestra per fare sul serio dimostrando che il governo intende stroncare questo andazzo e attaccare frontalmente il malaffare: il premier si rivolga al Parlamento e blocchi la vergogna della legge sulle intercettazioni telefoniche, in nome della libertà d’indagine, della libertà di stampa e del diritto dei cittadini di essere informati, fondamento di ogni democrazia.

È altrettanto vergognoso, e incomprensibile, che non ci sia una mobilitazione generale di tutto il mondo dell’informazione, dalla stampa alla radio-televisione a Internet. Qui non è una questione di destra o sinistra, ma un problema di diritti fondamentali, del loro esercizio, del dovere di informare e del diritto di conoscere e sapere. È un tema di libertà, nel quale si mette in gioco quel soggetto fondamentale delle democrazie occidentali che è la pubblica opinione: ciò che distingue un regime da un sistema aperto, con un libero mercato del consenso basato sulla trasparenza e sull’accesso alla conoscenza e all’informazione.
Diciamo subito che le intercettazioni sono una parte del problema: ma diventano la formula-richiamo per far intendere ai cittadini che il governo si preoccupa soltanto di tutelare la loro privacy.

Chi vuole infatti essere ascoltato nelle sue private conversazioni? Non è forse giusto garantire la libertà di tutti, evitando abusi ed eccessi? Ma gli abusi e gli eccessi sono un falso di Stato. Due anni fa il Guardasigilli ha detto che “una grandissima parte del Paese è intercettata e il numero delle intercettazioni è assolutamente ingiustificato in base al numero degli abitanti e all’ordinamento giuridico”. Bene. In realtà i telefoni intercettati in Italia nel 2009 sono 120 mila, che tenendo conto del giro vorticoso di schede e utenze usate dai criminali e delle proroghe corrispondono a meno di 80 mila cittadini, vale a dire lo 0,2 per cento della popolazione. Ecco il falso: aggravato dalla circostanza che il numero dei “bersagli” (come si dice in termine tecnico) intercettati è sceso di 5 mila unità nel 2009 rispetto all’anno precedente, che il costo per lo Stato è fortemente diminuito e che l’80 per cento degli ascolti, addirittura, riguarda reati di criminalità organizzata.

Dunque, che cosa deve temere il cittadino? L’unico interesse generale da tutelare è la garanzia che non venga violata – come talvolta è accaduto, per colpa della pubblicazione affrettata degli atti sui nostri giornali – la riservatezza di persone che non hanno nulla a che vedere con le indagini, quando le loro conversazioni non sono rilevanti per l’inchiesta. Ma per rimediare a questo problema, abbiamo avanzato da tempo una proposta: un’udienza stralcio davanti ad un giudice terzo in cui le parti, e la magistratura ovviamente tra queste, si assumano una precisa responsabilità, stabilendo che cosa è rilevante ai fini processuali e che cosa è insignificante. Ciò che non ha peso per l’accertamento giudiziario deve essere distrutto o secretato, e certamente a questo punto devono scattare sanzioni durissime per chi lo diffonde o lo divulga su un giornale. Mentre ciò che ha un rilievo per l’inchiesta può essere divulgato perché è giusto che l’opinione pubblica conosca i meccanismi attraverso cui si realizza non solo la fattispecie di un reato, ma talvolta un vero e proprio sistema criminale di rilevanza sociale.

Il problema può dunque essere risolto facilmente, in fretta e alla radice. Ma qui, invece, l’obiettivo è quello di tutelare i potenti dal rischio di essere intercettati dal magistrato che cerca prove per un reato e dal pericolo di vedere quelle conversazioni-prova pubblicate dai giornali. E in particolare si punta a tutelare quella particolare categoria di potenti – gli uomini politici – che deve sottoporsi al giudizio della pubblica opinione, e dunque teme l'”accountability”, il dover rendere conto del proprio operato, la trasparenza delle sue azioni. Ovviamente, una larga parte del mondo politico condivide il principio della responsabilità e del rendiconto. Ma il governo, con ogni evidenza, vuole evitarlo. Ecco dunque la ricerca di norme congiunte che da un lato rendano più difficili, più limitate, più ristrette le intercettazioni e dall’altro renda addirittura impossibile ai giornali pubblicare non solo i verbali delle conversazioni legittimamente registrate, ma le notizie stesse delle inchieste giudiziarie.

Con questo sistema si crea dunque un doppio “vuoto”, uno nell’area delle indagini penali e l’altro nell’informazione che i cittadini hanno il diritto di ricevere su queste indagini. I criminali verranno aiutati: la pubblica opinione verrà invece sottoposta ad un regime di tutela, con il divieto di conoscere e di sapere ciò che avviene nel mondo della giustizia, negli ambienti del crimine, in quella zona critica dove i suoi stessi rappresentanti politici vengono talvolta colpiti da un’iniziativa giudiziaria.

Poiché siamo davanti ad un terremoto politico e di potere, ben più che penale, dentro il mondo impaurito del governo e del sottogoverno, è molto difficile non pensare che la sordità parlamentare e la fretta della destra berlusconiana per far approvare la legge siano una vera e propria operazione di salvaguardia in corso d’opera. Il ministro Scajola è un testimone esemplare di questo riflesso politico di difesa e d’attacco: le intercettazioni sul G8 infatti hanno messo in movimento il piano inclinato che ha fatto ruzzolare il ministro davanti all’opinione pubblica, non alla magistratura. Dunque, se con una mano il governo paralizza le intercettazioni o le limita drasticamente, e con l’altra impedisce semplicemente che i giornali informino i cittadini, un caso Scajola non si verificherà mai più. Il Parlamento voterà obbediente, i telegiornali magnificheranno la difesa della privacy, qualche giornale strepiterà e gli altri volteranno pagina: incombe o no il campionato del mondo di calcio? Che c’è di meglio, direbbe il saggio Confalonieri, per distrarsi un po’?

E invece siamo davanti ad un vero e proprio test per il circuito di funzionamento della nostra democrazia. Sul piano delle indagini, con l’irragionevole limite prefissato alla durata delle intercettazioni, con l’impossibilità di usare gli ascolti per fare altre registrazioni, se emerge dai nastri l’ipotesi di un diverso reato, gli effetti sono evidenti: non ci sarebbe stata l’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, sarebbe già saltata l’inchiesta sul G8 e la Protezione Civile, si sarebbe bloccata l’indagine di Trani su Rai e Agcom con le pressioni del presidente del Consiglio per bloccare Santoro e la Dandini, sarebbero saltate le prove che a marzo hanno consentito l’arresto a Milano di sette persone sospettate di traffico d’armi con l’Iran, sarebbe diventato molto più difficile documentare la tangente da 10 mila euro per il consigliere comunale milanese Milko Pennisi del Pdl.
L’operazione è completata con il bavaglio alla stampa. Nessuna notizia potrà infatti essere pubblicata d’ora in poi su qualsiasi atto, nominativo, verbale che abbia a che fare con un’inchiesta in corso. L’obbligo al silenzio per i giornali dura fino alla chiusura delle indagini preliminari, cioè per un periodo di tempo che nella media va in Italia dai quattro ai sei anni e che in qualche caso patologico arriva fino ai dieci. L’opinione pubblica sarà dunque all’oscuro dei grandi reati e delle grandi inchieste per anni e anni, in forza di un divieto tombale di Stato, che blocca l’informazione. Le sanzioni sono pesantissime: carcere fino a due mesi, ammende da 2 a 10 mila euro per “pubblicazione arbitraria”, galera fino a sei anni per la “talpa”. In più, con una sanzione fino a 465 mila euro a notizia nei confronti delle aziende editoriali (che il Guardasigilli chiama l'”ente”) si obbligano gli editori ad adottare specifici “codici di condotta” a loro salvaguardia: ciò comporta che l’editore abbia un suo interesse autonomo, collegato ma distinto da quello del giornalista, a far sì che non si pubblichino determinate notizie. Si spinge cioè l’editore a intervenire nei contenuti di un giornale, cosa che in un sistema sano non avviene, pur avendo l’editore la piena potestà sulla parte che lo compete, fino a decidere la sostituzione del direttore. Infine, la pressione del governo sull’Ordine dei giornalisti, perché il disegno di legge impone al pubblico ministero di informare “immediatamente” l’Ordine su chi ha violato il decreto di pubblicazione, e in più prevede la sospensione dall’esercizio della professione fino a tre mesi.

Il quadro è chiaro. Con il risultato che gli indagati potranno fare dichiarazioni sulle inchieste a cui sono sottoposti e i giornalisti non potranno replicare, non conoscendo gli atti. E con il rischio che nel divieto di trasparenza e nel silenzio di Stato si gonfi fuori da ogni responsabilità istituzionale una bolla di voci sulle indagini, di allusioni e di sospetti che potranno essere usati a piacimento e fuori da ogni controllo di legittimità: anche come arma politica, e soprattutto da chi controlla i mezzi d’informazione e ha già dimostrato ampiamente e con successo di saper killerare con false notizie i suoi critici.

Entreremo dunque in una fase di ricatti sospesi, di calunnie e di allusioni. Con giornali dimezzati, magistrati limitati, cittadini disinformati. Insieme con le leggi ad personam e il conflitto d’interessi questa censura di Stato è il terzo elemento che trasforma l’anomalia berlusconiana in un regime. L’opposizione non sembra consapevole del pericolo, il mondo dell’informazione nemmeno, dunque il governo va avanti. Ma ci sono battaglie che devono essere combattute indipendentemente dai rapporti di forza: lo faremo.

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