Trentasei anni fa, a Londra, il congresso mondiale dei Rom adottò la bandiera di quel popolo, nella quale – da altrettanto tempo – quasi tutti i Rom avevano imparato a riconoscersi: la ruota rossa di un carro, con i sedici raggi che alludono alla molteplicità delle genti nomadi, tra i colori del cielo e della terra. La settimana scorsa a Bruxelles, su precisa e intransigente richiesta del primo ministro britannico, il Consiglio europeo ha stabilito, nel mandato alla Conferenza intergovernativa che dovrà elaborare la riforma dei Trattati (non più Costituzionali), che essi «non conterranno alcun articolo che faccia riferimento ai simboli dell’Unione europea quali la bandiera, l’inno o il motto».Londra sembra aver paura di riconoscere nelle 12 stelle la molteplicità dei popoli europei e l’inarrestabilità del cammino di integrazione dell’Unione. Proprio a Londra, due anni prima dell’adesione della Gran Bretagna alle Comunità europee, avvenuta nel 1973, le comunità Rom decisero di riconoscersi nella ruota e nei suoi sedici raggi: ciascuno libero di muoversi, ma tutti convergenti al centro.
Ho voluto iniziare con questa piccola provocazione, di cui non mi sfugge la percentuale di enfasi e di retorica che essa contiene, per approdare a una constatazione: fatte le debite proporzioni, non c’è alcun dubbio che nei prossimi anni dovremo continuare a fare i conti con le dodici stelle disposte in cerchio della bandiera europea; così come dovremo fare sempre più i conti con i sedici raggi della bandiera Rom.Proprio l’Unione europea, con il suo spazio unico di libertà, sicurezza e giustizia, ha imposto e continuerà a obbligarci a rivedere tante nostre categorie sociologiche e culturali.
Già oggi gran parte dei Rom che transitano o risiedono stabilmente, sia pure in modo itinerante, in Italia e negli altri Paesi dell’Unione, provengono dall’Unione, sono cittadini europei in quanto cittadini di un Paese dell’Unione europea. Solo una parte di loro sono apolidi, ma non per questo privi di diritti.Anche a voler tener conto che una gran parte di loro proviene dai Balcani, oggi non inclusi nella Ue, ma domani certamente sì; e anche a voler sottolineare l’ambito più circoscritto dello Spazio Schengen (peraltro solo in via transitoria) rispetto all’Unione allargata a 27, la riflessione è semplice e inevitabile. Si può sgombrare una tribù nomade da un terreno abusivamente occupato nella periferia di una grande città, ma non si può pensare che quel gruppo non vada domani a occuparne un altro. Si può essere abusivi su un terreno o su tutti i terreni; ma non si è abusivi sulla Terra, tantomeno in Europa. Si potrà anche insistere sull’assenza di un territorio riconosciuto e riconoscibile, sia pure privo dei requisiti statuali, dal quale far provenire o al quale attribuire il popolo Rom. Ma non si potrà far discendere da questa carenza (peraltro, orgogliosamente rivendicata) l’inesistenza dei diritti fondamentali. E forse si dovrà anche rileggere l’articolo 6 della Costituzione italiana, che assicura la tutela delle minoranze linguistiche – che ha trovato piena traduzione legislativa solo nel 1999 – per constatare che quel dovere di tutela non è subordinato alla condizione di un territorio.A me non spetta – ed è anzi impedito dal ruolo di giudice costituzionale che potrebbe essere chiamato ad esprimersi sulla legittimità di norme o su conflitti di attribuzione nella materia che stiamo affrontando – entrare nel merito delle questioni poste: oggi in modo particolarmente autorevole in questo luogo non a caso intitolato a don Luigi Di Liegro, e in molti altri luoghi in queste settimane, non sempre all’insegna della tolleranza e della comprensione.
Però non posso tacere il fatto che la maggior parte delle questioni di cui discutiamo rappresentano questioni di fatto, più che di diritto. Lo dico nel senso non riduttivo nel termine. Lo dico nel senso che la nostra Costituzione, anche attraverso l’interpretazione adeguatrice della giurisprudenza costituzionale, riconosce già oggi la pienezza di una serie di diritti fondamentali in capo al singolo che, quale che ne sia la ragione e la legittimità del titolo, si trovi sul territorio italiano. Cittadino o straniero, munito di diritto di soggiorno o clandestino, ciascuno è titolare di un catalogo di diritti, a cominciare da quello alla salute, che non può essere impedito da qualsivoglia assenza di requisiti (rilevanti ad altro titolo) né sottoposto a qualsivoglia condizione o differito al tempo in cui sia data attuazione legislativa a determinati princìpi.Si dirà che la realtà è spesso diversa. E talvolta lo è anche in senso positivo, laddove – soprattutto grazie alla mediazione di associazioni di volontariato, ma anche all’azione di molti enti locali e territoriali – esistono e si sperimentano esperienze di accoglienza e di convivenza. Nella maggior parte delle Regioni, per esempio, esistono leggi che prevedono l’ospitalità di comunità nomadi in campi attrezzati. Almeno in teoria.Allo stesso modo so bene quanti problemi pratici, molto concreti, si pongono in punto di sicurezza, di attrezzature minime, anche sul piano dell’igiene e della salute.Non sfugge, insomma, che nel rapporto con i Rom non è sufficiente esibire un catalogo di diritti fondamentali della persona intesa come singolo e come insieme di singoli; né il rapporto con le comunità Rom – non sempre nomadi o non più nomadi; e sempre più composte di cittadini italiani – può trovare un punto di equilibrio a partire dalla constatazione che la somma dei diritti (e dei doveri) dei singoli tutela anche la comunità nel suo insieme.
Intanto i Rom sono un popolo in quanto all’interno di ogni gruppo, più o meno stanziale, esiste il riconoscimento e l’esercizio di un’autorità. Esistono insomma figure responsabili della comunità, con le quali è possibile assumere impegni: riconoscere diritti a fronte di impegni e doveri; prestare servizi essenziali anche a fronte di corrispettivi; rispettare tradizioni e costumi, ma a fronte di un impegno di legalità che, per esempio, escluda che i minorenni possano essere addestrati all’accattonaggio o esere sottratti al diritto-dovere all’istruzione scolastica. Nel rigoroso rispetto del carattere personale della responsabilità penale, esistono doveri genitoriali (non privi a loro volta di possibile rilevanza penale) che evidentemente si applicano, devono applicarsi, anche alle famiglie Rom. E così via.Queste considerazioni sono ben note e sono già state sperimentate qui a Roma come, soprattutto in questi giorni e non senza tensioni, a Milano. E anche in tante altre città italiane. Ma si tratta ancora di esperienze non sistematiche, non stabilizzate e, sia detto senza mezzi termini, che sembrano destinate ad arretrare nel momento in cui l’esigenza di sicurezza (e tanto più la percezione di insicurezza) fanno prevalere altre, legittime esigenze, dei residenti nelle periferie.Da marzo ad oggi – a partire dal Patto per la sicurezza sottoscritto tra l’Anci e il ministero dell’Interno – sono stati sottoscritti una decina di Patti locali, con i Comuni capoluogo e talvolta estesi alle Province o anche alle Regioni, nei quali sembra prevalere – com’è ovvio e legittimo in un Patto così denominato – l’obiettivo del contenimento delle presenze estranee, sul presupposto che siano spesso dedite ad attività illegali; piuttosto che la prospettiva dell’accoglienza o della convivenza.Insomma, la sensazione è che questo non sia il momento propizio – anche sul piano del consenso politico, e forse anche a causa di una malintesa tolleranza negli anni precedenti – per riconoscere spazi fisici e sociali a quanti sono ritenuti estranei, “consumatori” di diritti ma sottratti ai doveri.Credo sia invece il momento – né più né meno di quanto lo è, su un piano generale per tutti i popoli europei – di coniugare i diritti di libertà e sicurezza con i doveri di solidarietà; ma con l’avvertenza di coinvolgere in questi doveri proprio le comunità Rom.
A fronte di posizioni di rifiuto e di ideologie di intolleranza, le posizioni ispirate al rispetto sono state spesso alimentate da un’illusione di integrazione animata dalla migliore buona volontà, ma distante dalle intenzioni e dalle esigenze dei destinatari. I quali o rivendicano la loro diversità (e quindi rifiutano un’integrazione forzata) oppure maturano volontà e percorsi di integrazione che, sia pure non senza problemi, sono avvenute in molte città italiane ma si sono realizzate su un arco di tempo molto più ampio.Il modello al quale mi riferisco è quello recentemente adottato nelle relazioni con le comunità degli immigrati e con le comunità religiose. E che si è tradotto nella Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione, pubblicata appena due settimane fa sulla Gazzetta Ufficiale. È a mio avviso di grande significato che il decreto del ministro Amato che adotta la Carta, afferma che «il ministero dell’Interno, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, si ispira alla Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione». E, ancora, «il ministero dell’Interno orienta le relazioni con le comunità degli immigrati e religiose al comune rispetto dei princìpi della Carta dei valori, nella prospettiva dell’integrazione e della coesione sociale».Quali che siano i motivi per i quali la benemerita volontà di adottare la Carta in tempi brevi si è tradotta in un impegno apparentemente circoscritto al ministero dell’Interno, credo sia molto importante, anche sul piano simbolico, che al rispetto di quei princìpi sia volontariamente e pubblicamente impegnato il ministero dell’Interno, lo stesso che contemporaneamente sottoscrive i Patti della sicurezza con gli enti locali (e che talvolta è percepito come il ministero di polizia, focalizzato solo sull’ordine pubblico; e che invece al suo interno ha anche, per esempio, il dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione).Mi sembra una prospettiva di grande interesse, che mette insieme, contestualmente, sicurezza e solidarietà, libertà e responsabilità, diritti e doveri.
Forse con qualche necessità di adattamento (l’insistenza della Carta sull’integrazione riconosce una generale aspirazione degli immigrati mentre, come si è accennato, non sempre è condivisa dai Rom) mi sembra un’ottima piattaforma, molto più che un punto di partenza, per affrontare in modo rispettoso e in chiave di reciprocità un problema reale, che interroga la nostra coerenza nell’affermare e nel riconoscere – non solo sui libri e nei convegni – i diritti fondamentali delle persone e dei popoli.
* Traccia di intervento del vicepresidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick. Roma, Palazzo Valentini, Sala Luigi Di Liegro, Mercoledì 27 giugno 2007.
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