Il più ricco del reame

21 Ottobre 2005

E’ difficile scrollarsi di dosso lo squallore del Parlamento che in fretta e furia vota una nuova Costituzione, preoccupato di innalzare striscioni e sventolare simboli un tempo sacri, irridendo milioni di italiani che per essi sacrificarono, giovanissimi, la vita. Irridendo la nostra storia. Una Camera di deputati la cui maggioranza invoca un Paese fatto a pezzetti, sconclusionato, diverso, lontano, disarticolato e debole, così debole da trasformarsi da Repubblica in regno del più forte.
Il più ricco del reame, che siede lì con i suoi nuovi occhiali, a “controllare” e vigilare sul voto, ad additare i “traditori” al pubblico disprezzo.
Difficile uscire da Montecitorio e riprendersi dal malessere profondo in cui il clima di questa votazione ha fatto precipitare. Un manipolo di alieni è intervenuto in aula a cercare una vendetta: contro quell’arco costituzionale di cui essi non fecero parte perché corresponsabili del vecchio regime fascista, oppure perché eredi di un particolare, antico disprezzo del nord per il resto del Paese. Mi riferisco ovviamente a An e alla Lega. Quanto a Forza Italia votava soprattutto una riforma che umilia il Parlamento, istituzione che non piace a Berlusconi, ancora troppo autonoma, nonostante tutto.
La Costituzione scritta da quei quattro “pirla” come Bossi stesso chiamò i quattro “saggi di Lorenzago”, non può più avere la firma dei padri fondatori: De Nicola, De Gasperi e Terracini. La firmino Berlusconi e Calderoli.
Ci sarà il referendum, si consola l’opposizione.

Ma credete davvero che sarà una passeggiata? Noi non lo crediamo: non lo crede certo Libertà e Giustizia che da tempo si è dedicata con i soci e i simpatizzanti, a mobilitare i cittadini perché sappiano cosa accade. Non lo crede nessuno di coloro che oggi nei piccoli centri e nelle grandi città si organizzano in comitati e coordinamenti. Non lo credono i partiti, e nemmeno i sindacati che vedono lesi l’uguaglianza dei diritti dei lavoratori e l’essenza stessa della Repubblica fondata sul lavoro.
Un referendum si può anche perdere: se chi lo contrasta non sarà unito, se cercherà di vincerlo nel nome di piccole distinzioni formali, se ognuno andrà in Tv a sostenere una tesi di parte, la propria. Qui ci sarà un’idea soltanto da far passare: non serve una nuova Costituzione, serve quella vecchia che ci consente di aggiornarla e rivederla in quelle parti che davvero una stragrande maggioranza del Parlamento o del Paese ritenesse di dover aggiornare. Serve un Parlamento forte, rappresentativo della volontà popolare, un presidente del Consiglio forte, in grado di governare, un presidente della Repubblica e una Corte Costituzionale garanti delle istituzioni e del bilanciamento dei poteri, una magistratura indipendente dal potere politico. Serve l’unità d’Italia, e un federalismo moderno che non la distrugga.
Vogliamo essere fieri della nostra storia di uomini e donne liberi, tanto più quando siedono in quelle aule.
Per questo vincere il referendum è un dovere.

Sarà bene non dimenticarlo.

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