L’attuale situazione percettiva del governo Prodi, nell’immaginario collettivo quale appare dalle rilevazioni demoscopiche dei principali istituti di ricerca sociale, ricorda molto il cosiddetto “dilemma del prigioniero”. Ossia, la situazione in cui si deve scegliere fra due opzioni, ciascuna delle quali presenta forti conseguenze negative. Nel caso in oggetto, il dilemma suona più o meno in questi termini: meglio privilegiare, nelle decisioni del governo, l’esigenza tecnica di risanare rapidamente i conti dello Stato, oppure quella politica di consolidare innanzitutto il rapporto con il proprio elettorato effettivo e potenziale, dopo la rocambolesca vittoria per soli 25 mila voti alle elezioni politiche di Aprile 2006? Nel primo caso (privilegiare le esigenze di contabilità nazionale) il rischio è di compromettere la relazione di consenso con l’elettorato, nel secondo (privilegiare il consolidamento di una relazione appunto ancora fragile) il rischio è di procrastinare una situazione di deficit, e di debito, che certo non fa bene all’economia del Paese. Posto di fronte al “dilemma del prigioniero”, il governo sembra aver fatto rapidamente la sua scelta: privilegiare la dimensione “contabile” a scapito, a forte scapito, di quella politica. Ne è nata una finanziaria 2007 che ha letteralmente traumatizzato l’opinione pubblica, trasversalmente ai territori geografici e, almeno in parte, agli stessi orientamenti politici. Non più di un cittadino su tre dichiara di aver capito il “senso” di questa finanziaria; oltre due cittadini su tre ritengono che, per via della finanziaria, le loro condizioni economiche personali e familiari peggioreranno, un cittadino su due giudica tale legge “iniqua”.
Sono dati impressionanti, ai quali si accompagna un aumento di oltre 20 punti percentuali nella quota di cittadini che danno una valutazione negativa dell’operato del governo e una ridistribuzione delle intenzioni di voto per via della quale, se si votasse domani, probabilmente vincerebbe il centro-destra 53 a 47.Un sentimento di antipatia si è diffuso nel Paese nei confronti del gabinetto Prodi, non tanto (contrariamente a quanto si crede) per l’annunciata lotta all’evasione fiscale (che rappresenta comunque ormai un fenomeno limitato in termini di numero di soggetti “evasori”, non superiore al 10% della popolazione), quanto per un insieme di misure che danno la sensazione di prendere d’assedio la classe media o medio-alta (l’aumento del bollo auto, l’aumento delle aliquote, la riduzione dei trasferimenti ai comuni con il conseguente aumento delle tasse “locali”, la reintroduzione della tassa di successione, e così via). Con una metafora un po’ forte, si potrebbe dire che il governo Prodi ha deciso di fare harakiri, di suicidarsi ritualmente di fronte all’altare del risanamento dei conti pubblici. Bruxelles sarà forse contenta, ma l’elettorato italiano ha avuto un “imprinting negativo” nei confronti dell’attuale governo, le cui conseguenze a medio e lungo termine sono davvero imprevedibili. Il tutto nell’apparente mancanza di un progetto, di una visione, di un “modello di Italia” da proporre a quei medesimi cittadini ai quali si chiedono sacrifici.
Lo stesso Mosè, citato da Prodi come esempio positivo di leader “insensibile ai sondaggi”, ha sì guidato il suo popolo in una lunga e faticosa traversata, che forse sarebbe stata appunto impopolare in termini di sondaggi, ma lo ha fatto nel quadro del grande progetto di dare al proprio popolo la sua “terra promessa”. Che è esattamente ciò che manca nell’operato del governo: una terra promessa (leggi una precisa progettualità politica riformista) per la quale abbia senso fare dei sacrifici. Se invece la sensazione più diffusa tra la gente è che si tratti di far fare bella figura a “TPS”, ovvero all’ormai leggendario ministro Tommaso Padoa-Schioppa, costi quel che costi, l’esito politico non può che essere quello di riconsegnare il Paese all’incontrastato dominio del centro-destra.
* L’autore è direttore del Coesis Research e fa parte del Consiglio di presidenza di LeG
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