Se soccorrere diventa reato

05 Lug 2019

Povera Italia, povera Europa, povera legalità e povera la nostra anima.

Mentre infuria la battaglia delle parole sull’ approdo drammatico della ‘Sea Watch 3′ a Lampedusa e mentre il ferro e il fuoco delle recriminazioni, delle invettive, delle maledizioni e delle bestemmie incendiano persino il mare, si gonfiano e crescono lo strazio, l’ umiliazione e la fatica a trattenere il pianto. 

Non c’è ragione e non ci sono ragioni che spieghino e comprendano ciò che nella notte del 29 giugno 2019, notte dei santi Pietro e Paolo, è potuto accadere nel porto di quell’ isola immersa nel Mediterraneo e che un po’ tutti negli anni – grazie alla generosità della sua gente e alla salda testimonianza della sua Chiesa – abbiamo imparato ad ammirare, amare e a chiamare ‘speranza’.

Non c’ è ragione e non ci sono ragioni che aiutino a capire perché una nave con a bordo 40 naufraghi abbia dovuto rischiare la collisione con la nave militare di una nazione come la nostra, che grazie alla sua civiltà – e ai valori che ha scolpito in Costituzione e nei Trattati e nelle Convenzioni che ha firmato e, prima ancora, ha contribuito a scrivere – ha saputo affermare e condividere con gran parte del mondo quei princìpi umanitari che dovrebbero dare luce e profondità alle regole immaginate per rendere il mondo stesso un posto sempre più accogliente e giusto per gli esseri umani. Soprattutto per i più poveri e i più deboli.

Non c’è ragione e non ci sono ragioni, decenti e serie, che spieghino perché proprio quei 40 profughi dalla Libia «posto non sicuro», parola dell’ Onu ma anche del nostro Governo, non dovessero mettere piede in Italia dove solo nell’ ultimo mese almeno altre 500 persone sono approdate irregolarmente via mare e migliaia e migliaia via cielo e via terra. 

L’unico motivo, né serio né decente, potrebbe essere che quelle persone, tenute forzatamente in mare per più di due settimane, dopo mesi e mesi nei disumani centri libici di detenzione degli stranieri in transito, sono state tratte in salvo da un’ imbarcazione ‘non governativa’, cioè messa in acqua da un’ associazione di volontariato. Ma in realtà la spiegazione non regge, perché in questi mesi lo stesso trattamento è stato riservato a persone salvate da navi italiane e addirittura da navi militari italiane.

Semplicemente, incomprensibilmente, la logica – per nulla logica – sembra diventata che chi scampa a un naufragio e viene raccolto in mare non può approdare, chi naviga, non fa naufragio e arriva sino alle nostre coste invece, in qualche modo, sì. Il discrimine è dunque il soccorso. Si sta cercando di affermare definitivamente, nell’acquiescenza opaca dell’Europa dei grandi discorsi e dei piccoli egoismi e di un’opinione pubblica italiana e continentale che assiste a tutto questo con modesta sorpresa e insufficiente comprensione e indignazione, un principio negativo. 

Che riguarda i migranti come i bambini non nati, i poveri di tutto come i vecchi troppo vecchi e malandati per essere considerati titolari di una vita degna. Un principio negativo che capovolge il codice valoriale che, pure, sta alla base del nostro umanesimo e distorce persino lo sguardo cristiano sulla vita propria e degli altri. Se il soccorso è reato, chi s’impegna per salvare vite, in realtà le sta dannando. Chi tende la mano per aiutare, sta marchiando l’altro. Chi fa il bene, in realtà fa male…

Tutto ciò giustifica un approdo forzato e arrischiato come quello deciso dalla capitana della ‘Sea Watch 3’ Carola Rackete? No, non lo giustifica. A prima, e anche a seconda, vista non lo giustifica. Forse ci vorrà, se basterà, una terza vista. Anzi, una vista terza. Quella, appunto, di un’autorità terza: un giudice che dovrà giudicare in forza delle norme italiane e internazionali (senza le loro interpretazioni ‘social’) e valutando i fatti nudi e crudi (senza le armature polemiche che vengono loro imposte).

Per intanto, però, di buono c’è l’approdo sicuro ed europeo ottenuto per persone inermi e colpevoli solo di emigrazione dalle vie d’ Africa. Dovrebbe essere un evento considerato buono da chiunque abbia testa e cuore e anima ‘funzionanti’. Da chiunque intenda la portata di quel capovolgimento del codice di valori umani di cui s’ è appena scritto, quel codice che deve continuare a dirci che la legge serve senza arbitri la vita e mai la vita di nessuno deve essere assoggettata a un’ algida e arbitraria legalità. Quel codice che precede le leggi e può persino spiegare ciò che appare ingiustificabile. Può persino dirci perché una marinaia ha scelto di caricarsi sulle spalle tutta o quasi l’ illegalità sino a quel momento scaricata addosso ai povericristi che aveva raccolto in mare aperto. Può farci capire almeno un po’ quel drammatico e sconcertante fatto di mare e di porto, di illegalità e di umanità, che è avvenuto nella notte dei santi Pietro e Paolo a Lampedusa, Italia, e per cui la capitana Rackete, pur non rinnegando la scelta fatta, ha chiesto scusa ai marinai in divisa delle nostre Fiamme Gialle.

Capire, ammesso che lo si voglia fare, però non basta. Non basta più. Perché povero è il Paese dove naufraghi senz’ altro bagaglio che la propria pelle sono dichiarati nemici e chi li salva è trattato da fuorilegge e da fuorilegge si ritrova ad agire. Povero è il Paese dove i guardiani della legge sono costretti non a difendere i più deboli ma a difendere se stessi da un rischio grave e diventano scudo dei più forti. Povero è il Paese dove legge fa a pugni con la Legge, e il diritto si converte nel rovescio della morale. E poveri siamo noi. Come siamo potuti arrivare sin qui? E come possiamo rassegnarci?

Avvenire, 30 giugno 2019

 

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