Non c’è il PCI all’ origine di questa revisione del bicameralismo

25 Mag 2016

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Discutiamo nel merito – parliamo della proposta Renzi-Boschi e cerchiamo, per fare opera esplicativa e non propagandistica, di spiegare quel che i sostentori del Sì non dicono o dicono male.

La più sonora manipolazione riguarda il Senato, ovvero la sua presunta abolizione e poi la ricerca delle radici di questa proposta nel PCI e in particolare nei suoi massimi dirigenti, Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao.

Dicono i difensori del Sì che il Senato verrà eliminato e finalmente si instituirà il monocameralismo, come voleva la sinistra. Ma ciò è falso o non vero.

Prima di tutto: il Senato non verrà eliminato ma cambiato nella composizione, nella legittimazione e nella funzione — sarà formato da Senatori nominati con elezione indiretta e tra le sue funzioni avrà anche quella di intervenire sulle norme costituzionali. Senza legittimità democratica diretta (senza essere eletto dai cittadini) potrà intervenire direttamente sulla Norma più importante, mentre portà intervenire solo indirettamente sulle leggi ordinarie. Avrà molto potere su decisioni costituzionali pur non avendo investitura diretta; e avrà poco o meno potere su decisioni ordinarie – a dimostrazione del fatto che il valore prioritario non è la Costituzione ma il Governo.

E veniamo alla “storia”. Dicono i sostenitori del Sì che la Renzi-Boschi realizza il sogno dei comunisti e di altri Padri costituenti: un Parlamento monocamerale. Questa affermazione necessita un’attenta spiegazione, storica e teorico-politica.

Sul piano teorico: è vero che i democratici, dal tempo della Rivoluzione francese, furono tradizionalmente contrari al bicameralismo, che era identificato con il modello inglese della Camera del Lords e quindi con un residuo di medioevo e società cetuale. Tuttavia (i Girondini) soprattutto avevano ben chiari i rischi di tirannia della maggioranza che il monocameralismo senz’altra specificazione poteva comportare (e la tirannia dell’Assemblea venne di lì a poco esperimentata con il Terrore) e quindi cercarono di “pluralizzare” internamente l’Assemblea nazionale.

Questo fece già Condorcet nel cui Progetto di Costituzione repubblicana (il primo progetto di democrazia rappresentativa, scritto tra il 1792 e 1793) prevedeva che il Parlamento eletto per suffragio universale fosse internamente composto di tanti gruppi e commissioni al fine di non rischiare mai la situazione per cui un proposta veniva discussa e messa ai voti immediamente. Per evitare la “democrazia immediata” (porta spalancata ai demagoghi e alla tirannia della maggioranza) Condorcet ideò un percorso complesso delle proposte di legge, che dovevano passare attraverso vari comitati composti dai parlamentari stessi ed analizzate secondo vari punti di vista (in questo modo creò una sorta di costituzionalizzazione del processo legislativo) prima di sottoporle ai voti dell’assemblea plenaria.

Veniamo ora alla “storia” italiana. Vista l’origine rivoluzionaria della democrazia europea, non deve stupire che i nostri Padri costituenti, e i comunisti in particolare, avessere desiderato un Parlamernto monocamerale. MA essi si premunirono di specificare che la Camera unica doveva essere pluralizzata per impedire lo strapotere della maggioranza – per pluralizzarla si affidarono tassativamente al sistema elettorale proporzionale. Si sarebbero opposti con tutte le loro forze a un Parlamento monocamerale con un sistema elettorale che dava un premio alla maggioranza, rendendo l’opposizione un mero oggetto di tappezzeria.

In Italia, l’attacco al bicameralismo fu portato avanti prima di tutto dalle forze di destra già durante i lavori dell’Assemblea costituente: volevano il monocameralismo con maggioranze blindate i monarchici e gli ex-fascisti.

Alla fine degli anni ’70, quando prese corpo l’idea craxiana della “Grande Riforma” crebbe l’assalto al bicameralismo perfetto e al sistema elettorale proporzionale, accusati di favorire il consociativismo (ovvero il coinvolgivemento indiretto del PCI nell’attività legislativa). Questo aiuta a comprendere la pervicace ostilità del PCI, dagli anni Cinquanta alla fine della leadership berlingueriana, tanto verso un sistema elettorale maggioritario quanto, più in generale, verso una riforma radicale del sistema parlamentare. I dirigenti comunisti insisteranno sempre sul bicameralismo funzionale. Il PCI, che fino alla morte di Enrico Berlinguer non partecipò attivamente al “movimento” di riforma della Costituzione, in occasione della prima Commissione per la riforma Bozzi (1983-85) abbandona ufficialmente il monocameralismo di tradizione giacobina (cui si era ispirato in fase costituente e poi ancora negli anni Sessanta) e auspica una differenziazione delle due Camere, con un Senato direttamente eletto dal popolo ma con funzione di controllo e con un ruolo istituzionale riconosciuto alle rappresentanze regionali. Invero, un’apripista importante in questa direzione è Nilde Iotti, la quale su “l’Unità” del 16 settembre 1979 si eprime a favore di un “bicameralismo differenziato”.

Tra i rappresentanti di centro e centro-destra – da Randolfo Paciardi a Giorgio Pisanó a Giorgio Almirante— si mostra invece il persistente attacco sia al bicameralismo (anche funzionale) che al proporzionalismo. Le radici della proposta Renzi-Boschi si trovano nel mito del goveno monocolore, che si rafforza all fine degli anni ’50, quando finisce il monocolore democristiano che coincide con l’inizio in Francia dell’esperienza gollista, la quale per molti democristiani diventò un mito (a cominciare da Gianni Badget-Bozzo che parlò in quegli anni di gollismo della “Provvidenza” con il compito di purificare la democrazia italiana dal “virus” liberale per riportarla nell’alveo plebiscitario con l’“abbandonarsi del popolo” nelle “mani del Capo”).

In questo svolse un ruolo importante Pacciardi: la sua attività rappresenta uno snodo delle visioni più radicali di riforma che, ispirate dal gollismo, attraversarono tanto le componenti laiche quanto quelle cattoliche. Dopo l’espulsione dal Partito Repubblicano nel gennaio 1964, Pacciardi fonda l’“Unione Democratica per la Nuova Repubblica”, il cui “appello” proclama la necessità di una revisione della Costituzione in senso presidenziale. Egli motiva la proposta con un ragionamento che merita di essere riassunto se non altro perchè i suoi echi si avvertono ancora oggi: la Repubblica italiana è nata parlamentare perché concepita in funzione anti-fascista; il Parlamento, tuttavia, è fatalmente esposto alla degenerazione assemblearista e deve essere piegato alla funzione di sostegno del Governo. E’ questo il primo forte argomento a favore del monocameralismo e un sistema elettorale che consenta una maggioranza monocolore, condizioni per l’istituzione di un potere apicale di controllo e veto sul legislativo, che interrompa il parlamentarismo, parola che designa il disprezzo per la democrazia elettorale.

Un’altra idea di gollismo, è quella della “Seconda Repubblica” del missino Pisanò, che acquista espressioni anti-sistema ed eversive. In questo caso, l’attacco alla Repubblica democratica è prevedibilmente vecchio quanto la sua Costituzione. È proprio su un “progetto di riforma costituzionale” che Giorgio Almirante verrà costruendo la legittimità istituzionale del Movimento Sociale Italiano. La critica da destra al sistema parlamentare bicamerale si radicalizza nella denuncia della cosiddetta “partitocrazia” – un’invettiva che, analogamente all’ipotesi presidenzialista, è destinata a non rimanere prerogativa della destra. Del resto, è la storia stessa di questa espressione a rivelarne la profonda natura ideologica, nonché le ispirazioni anti-democratiche di quanti per primi la adoperarono – pensatori e politici della generazione liberale pre-fascista, alcuni dei quali sono poi tra i redattori della Carta repubblicana. Coniata dal liberale monarchico e membro della Costituente Roberto Lucifero, che la pronuncia per la prima volta in un intervento alla Consulta il 15 febbraio 1946, essa viene così definita da Benetto Croce: “la partitocrazia e l’origine delle assemblee dalla proporzionale […] continuano a dare i loro frutti insidiando e corrompendo la libera vita parlamentare”.

Benchè possa apparire paradossale, in Italia l’assalto al bicameralismo è partito da destra (anche quella di matrice liberale cioè anti-democratica, come per decenni fu il liberalismo, non solo in Italia), e ha coinciso con l’assalto alla democrazia elettorale e al “governo dell’assemblea” contro il quale le destre proposero insistentemente il governo apicale, la centralità dell’esecutivo. L’idea di una coincidenza del capo dell’esecutivo con il leader del partito di maggioranza relativa diventa, assieme al semipresidenzialismo di matrice gollista (e poi all’idea di un premierato forte), il modello più accreditato per correggere o superare il nostro bicameralismo perfetto.

Contro questa proposta il PCI oppose, soprattutto con Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao (ma anche come abbiamo visto sopra, Nilde Iotti) un bicameralismo funzionale che era differenziato nelle funzioni ma non nella rappresentanza (ovvero che non prevedeva un Senato nominato con suffragio indiretto) e che si avvaleva rigorosamente di un sistema elettorale proporzionale.

Sarà il Comitato Speroni (istituito dal Governo Berlusconi nel 1994) a proporre ufficialmente un Senato nominato con voto indiretto. Il Comitato (che prende il nome dal leghista che lo dirige) propose un modello di bicameralismo differenziato non solo nelle funzioni ma anche nella rappresentanza: mentre la Camera dei deputati continuava ad essere eletta a suffragio diretto, il Senato veniva a esprimere, nella sua composizione, solo le autonomie territoriali. A quest’ultimo livello, furono due le proposte formulate: “nella prima il Senato è composto per metà dei suoi membri dai rappresentanti delle Regioni e per l’altra metà da rappresentanti dei comuni e delle pronvice eletti in modo indiretto […]; nella seconda ipotesi, il Senato della Repubblica è composto da membri dei governi regionali che li nominano e li revocano: ciascuna regione nomina un numero variabile di senatori in relazione alla rispettiva popolazione”.

Proprio per le proposte avanzate circa la struttura del bicameralismo e la rappresentanza regionale del Senato per mezzo di suffragio indiretto, il progetto del Comitato Speroni può considerarsi un antesignano del disegno Renzi-Boschi. E’ quindi a destra che si trova la genesi di questo Senato nominato e del bicameralismo differenziato tanto nelle funzioni che nella rappresentanza e con un sistema elettorale che assegna un premio alla maggioranza, che vanno cercate le radici di questa proposta di revisione della Costituzione.

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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