A commento dell’attacco criminale degli estremisti islamici ai vignettisti e ai giornalisti di Charlie Hebdo, l’intellettuale francese Abdennour Bidar nella sua “Lettera aperta al mondo islamico” ha scritto che gli intellettuali occidentali sembrano aver smarrito la capacità di comprendere il fenomeno religioso. Per molti di loro la religione è un segno che sta per qualcos’altro: la narrativa che sostituisce le ideologie politiche decadute; il mezzo per mostrare contrarietà a leggi e sistemi politici; l’arma per denunciare la discriminazione, la marginalità, l’esclusione.
Certamente, la religione gioca e ha giocato tutte queste funzioni. Del resto, proprio per la sua capacità di muovere la paura e comandare l’obbedienza, ad essa si sono rivolti fondatori di Stati e loro consiglieri per indurre uomini e donne a fare cose che mai avrebbero altrimenti avuto il coraggio di fare. Spiega Machiavelli che solo quando i romani furono portati a sentire la paura della punizione divina i loro capi militari riuscirono a imporre il comando supremo nei campi di battaglia, perché la paura di dio superava quella della morte. Del resto, l’uso politico della religione ha un senso solo perché chi la usa e la mobilita ne conosce il potere tremendo e tragico, che sta oltre la vita e la morte.
La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare e de-potenziare questo potere tremendo. Ci è riuscita permeando la vita civile della cultura dei diritti. Ma la convinzione di averne domato la forza le si è come ritorta contro, rendendola incapace di comprendere appieno le risorse di cui la religione dispone, di leggerla come nient’altro che un segno che sta per qualcos’altro, un fenomeno arcaico e un rifugio per chi non ha, per esempio, risorse culturali ed economiche sufficienti. Opium populi .
La religione è un fenomeno radicale che la cultura dei diritti ha modificato ma non cambiato nella natura. Ecco perché essa ha difficoltà ad accomodarsi con la tolleranza, un termine che designa ancora una virtù fredda o una non-virtù proprio perché richiede di accettare l’esistenza di quel che da dentro la propria fede si considera un errore. Come ci ha ricordato Norberto Bobbio in un articolo magistrale, i credenti accettano la tolleranza come una regola di prudenza ma non l’abbracciano come un imperativo o un principio in sé. Ci è voluta la retorica semplice di Papa Francesco per ricordarcelo: «se offendi mia mamma ti mostro il pugno». Certo, mostrare il pugno non è la stessa cosa di usarlo. Ma è bene ricordare che è alla cultura dei diritti che dobbiamo riconoscenza per farci capire appieno quella differenza.
Criticare l’autore di una satira invece di sopprimerlo: qui sta tutta la differenza del mondo. Ma questa differenza è segno che la tolleranza funziona come regola di prudenza, ovvero che sa suggerire comportamenti strategici senza bisogno di cambiare l’attitudine spirituale del credente. Ora, è evidente che se nei Paesi occidentali questa regola di prudenza non costa tanto e funziona abbastanza bene è perché chi la pratica opera all’interno di una cultura etica che è imbevuta di un seme religioso preponderante. La cultura europea ha una sua omogeneità, sia quando parla la lingua della religione che quando parla la lingua dei diritti. E usare la regola della tolleranza mostrando il pugno è tutto sommato un fatto eccezionale. Essere tolleranti tra eguali costa meno, rende l’autocontrollo meno difficile. E soprattutto, ci fa dimenticare la radicalità del fenomeno religioso.
Fa dimenticare che la cultura dei diritti è un bene delicato; che l’abitudine che abbiamo acquisito in questi due secoli di dissentire con ragioni invece che con i pugni non ci ha al fondo cambiati, che la religione non è diventata una filosofia o una visione del mondo come le altre; che, infine, anche il pluralismo, quando riesce a stabilizzarsi, non è proprio lo stesso di quello che si trova nel libero mercato delle idee dove si sceglie tra varie opzioni (diceva Antonio Labriola agli ottimisti positivisti del suo tempo che i valori non sono come “caciovalli appisi” che troviamo già fatti al mercato). Questo per dire che l’argomento che ci invita a considerare le condizioni del dialogo e dei suoi limiti, che ci ricorda la natura irriducibile e radicale della religione, che ci mette in guardia dal pensare che le condizioni materiali di vita siano, al fondo, la sola e vera posta in gioco di chi crede in un dio, è sensato e saggio. Nessuna giustificazione e nessuna tolleranza verso coloro che usano il pugno. Ma sarebbe riduttivo pensare che se la religione è permeabile all’intolleranza ciò è perché le persone non sono abbastanza benestanti, colte, integrate, riconosciute; che il fenomeno religioso sia segno di qualcosa d’altro.
(La Repubblica)
Corriere di Puglia e Lucania 17 febbraio 2015
La blasfemia è diventata cosa giusta e buona
I pappagalli si divertivano: ogni volta che un gatto attraversava il cortile, gli lasciavano cadere addosso i loro escrementi, e giù a sghignazzare. La gallina li rimproverava: “Perché date fastidio ai gatti? Non vi hanno fatto niente di male, perché li sporcate con i vostri escrementi? Non sapete quanto ci tengono alla pulizia?”. Ma i pappagalli non rinunciavano al loro divertimento: appena vedevano un gatto, spiccavano il volo e lo bombardavano. Ed anche il cane ed anche il coniglietto rimproveravano gl’insolenti pappagalli: “Perché non li lasciate in pace? Non avete altro posto dove far cadere i vostri escrementi che la pelle lucida dei gatti?”. Una notte però accadde una cosa tremenda, una cosa esagerata, una cosa inconcepibile per i tranquilli animali del cortile. Un gatto si arrampicò sull’albero e senza misericordia afferrò per la gola un pappagallo e lo uccise. Tutti gli animali rimproverarono aspramente il gatto assassino. Tutti, giustamente, gridarono allo scandalo. Passò poco tempo, e i pappagalli ripresero il loro gioco come se niente fosse avvenuto. Nessuno li rimproverò più. Nessuno disse loro che non era cosa giusta e buona sporcare con gli escrementi la pelle lucida e pulita dei gatti. Anzi, la gallina addirittura approvò il gioco dei pappagalli: “Scherziamo? Ne va della nostra libertà. Possiamo darla vinta al gatto assassino? Dobbiamo continuare a dar fastidio a tutti i gatti”. L’uccisione del pappagallo aveva cambiato la mentalità della gallina, del cane e del coniglietto.
Francesca Ribeiro
Italians – Corriere della Sera 22 febbraio 2015
Sfottere i dominati è cosa cattiva e ingiusta
Una legge contro il reato di “negazionismo”? Vale a dire che sanzioni coloro che negano l’Olocausto? Una legge contro l’idiozia? Non mi sembra opportuna. E una legge contro coloro che negano il millenario dominio degli uomini sulle donne, i maltrattamenti subiti per secoli dalle donne, il femminicidio? Neppure mi sembrerebbe opportuna, giacché sarebbe ugualmente una legge contro l’idiozia. E una legge contro coloro che si accaniscono stranamente a sbeffeggiare il sacro con vignette volgarissime o con vignette raffinate? Be’, non sarebbe una legge contro l’idiozia, però ugualmente non la riterrei opportuna. La censura non va mai bene, è sempre una cosa molto antipatica. Mentre però ai primi e ai secondi, essendo idioti, è perfettamente inutile spiegare perché sono moralmente condannabili, ai bestemmiatori satirici, che idioti non sono, qualche spiegazione vale la pena darla. Intanto, poiché lo scopo della satira è di dare fastidio ai potenti, si potrebbe chiedere loro come fanno a ritenere potenti gli dei se non ci credono. Evidentemente i bestemmiatori satirici non vogliono dar fastidio al sacro, giacché nel sacro non credono (se ci credono sarebbero un po’ matti), ma a mezza umanità. In questo caso usano la satira in maniera sbagliata, giacché anziché dar fastidio ai potenti che dominano su mezza umanità, danno fastidio ai dominati. E sfottere i dominatori è cosa buona e giusta, sfottere i dominati è cosa cattiva e ingiusta.
Renato Pierri
E tuttavia, Nadia, come alla tolleranza si può preferire la laicità, così all’idea che la religione sia una pulsione arcaica incapace di non mostrare il pugno si dovrebbe preferire l’idea che non c’è seria cultura teologica che non sia al fondo anti-idolatrica. Cioè in particolare anti-ideologica.
Mi spiego su entrambe le cose. A differenza della semplice tolleranza, il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.
Ogni religione che veramente riconosca una trascendenza ha un precetto che proibisce di nominare Iddio invano, cioè di far uso del suo nome per fini umani, e addirittura di parlare in suo nome. Questa è la vera radicalità di ogni religione. Noi l’abbiamo percorsa fino in fondo, e siamo divenuti liberali. Dovremmo chiedere alle altre religioni di scendere nelle loro stesse profondità. Nel cuore di ogni religione c’è la mistica, e la mistica sa che ogni nome umano è inadeguato a Dio.
Ma se trattiamo le religioni da residui arcaici e selvaggi, non le aiuteremo a riconoscere se stesse. Prima che fosse proclamato l’habeas corpus, nel Vangelo il Cristo dice: “Noli me tangere”. Via le mani dall’uomo dal nome di Dio, via le mani di chiunque dal corpo dell’uomo.