Così può rinascere l’idea originale di un’Europa unita

10 Dic 2014

Andare alla radice. Negli anni che precedettero la fine della Seconda guerra mondiale e il crollo dei regimi fascisti e nazisti in Europa, avvicinandosi il momento della ricostruzione politica e morale del Continente, in ambienti intellettuali che guardavano lontano, dal passato al futuro, si fece strada una convinzione: lo Stato nazionale e sovrano aveva compiuto il suo ciclo plurisecolare, liberando in fine il suo fiele velenoso.

europaAndare alla radice. Negli anni che precedettero la fine della Seconda Guerra Mondiale e il crollo dei regimi fascisti e nazisti in Europa, avvicinandosi il momento della ricostruzione politica e morale del Continente, in ambienti intellettuali che guardavano lontano, dal passato al futuro, si fece strada una convinzione: lo Stato nazionale e sovrano aveva compiuto il suo ciclo plurisecolare, liberando in fine il suo fiele velenoso. Già al termine della Prima guerra mondiale, ci fu chi — Luigi Einaudi — l’aveva definito “idea feconda di male”. Al termine della seconda, l’assolutezza del potere ch’esso rivendicava a sé si era pienamente manifestata nel modo più tragico.
Il partito unico, depositario di quel potere, non era stato affatto una degenerazione della sovranità nazionale, ma il suo compimento storico. Gli Stati totalitari, in fondo, erano quelli in cui, almeno nell’Europa continentale, avevano fuso nel modo più coerente statualità e nazionalismo. La guerra non era stata una deviazione occasionale, un impazzimento momentaneo, ma la logica conseguenza della potenza piena e incondizionata che essi pretendevano.
Queste convinzioni erano segni dei tempi di allora. Fiorirono in tutta Europa progetti costituzionali concepiti da persone che nemmeno si conoscevano tra di loro ed erano all’oscuro delle idee che gli uni e gli altri andavano maturando. Un novus ordo sembrava battere alla porta e portava un nome: federalismo. Dopo le tragedie dei totalitarismi e i massacri della guerra, una ricostruzione dell’Europa a partire dalla ricostituzione degli Stati sovrani, cioè propriamente dalla riproposizione delle cause di tanta sventura, pareva essere un errore foriero di nuovi altri mali, già sperimentati. Occorreva ascoltare la lezione della storia. La testimonianza più nota di quest’indirizzo di pensiero è certo il Manifesto di Ventotene , steso nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Ora, l’editore Aragno ripropone il Progetto di costituzione confederale europea ed interna di Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci, un testo assai meno noto del Manifesto, che si pone sulla medesima lunghezza d’onda. L’importanza attuale di questi scritti sta precisamente nella loro inattualità, cioè nel fatto che le cose sono andate molto diversamente da ciò che essi prefiguravano, e non sono andate bene.
Tanto il Manifesto quanto il Progetto rovesciano il punto di partenza che noi abbiamo fatto nostro come dato incontestabile, cioè l’idea che l’Europa federata possa procedere soltanto a partire dalle sovranità degli Stati, per mezzo di “cessioni” o “limitazioni” di poteri. La fonte di legittimità europea avrebbe dovuto essere in Europa, non negli Stati: le costituzioni statali come derivazioni dalla costituzione europea, e non viceversa. Le politiche europee e i Trattati che hanno dato loro forma giuridica presuppongono invece gli Stati come prius e l’Europa come posterius. Questa presupposizione divenne presto inevitabile, ma tale non appariva allora. Con le parole del Manifesto: «L’ideale di una federazione, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una meta raggiungibile e quasi a portata di mano», non come un lontano ideale, ma «come una impellente, tragica necessità» in quello ch’era il «totale rimescolamento» di popoli, il quasi totale sfacelo delle economie nazionali, la necessità di ridefinire i confini politici, la riconsiderazione dei rapporti tra maggioranze e minoranze etniche. Tutti questi problemi non avrebbero potuto essere affrontati se non a partire dalla dimensione politica europea: la guerra era nata in Europa e l’aveva distrutta; solo l’Europa avrebbe potuto rimettersi piedi.
La storia avrebbe dimostrato l’illusorietà di quel “a portata di mano”. La liberazione dai fascismi non avvenne affatto in nome dell’Europa, ma in nome delle nazioni e della loro indipendenza e autosufficienza. Quando l’integrazione europea divenne un tema concreto, già negli anni ‘50, la situazione era dunque pregiudicata in senso nazional-statalista. I progetti federalisti della prima ora avrebbero concordato nel denunciare questo passo falso. L’Europa sarebbe finita inevitabilmente per assomigliare a una sommatoria di egoismi statal-nazionali che non avrebbe messo in campo la legittimità dell’Europa come tale. Il percorso si sarebbe svolto secondo quello che s’è definito il “metodo funzionalista”: singole funzioni attribuite a burocrazie che, alla lunga e soprattutto nei periodi di difficoltà, inevitabilmente sarebbero state avvertite dalle popolazioni come corpi estranei, espressioni di tecnocrazie di varia natura, in ogni caso mosse dalla conservazione degli interessi più forti e irresponsabili. Ciò dovrebbe rendere avvertiti dei rischi di ulteriori spostamenti di sovranità non accompagnati da passaggi per l’effettiva democratizzazione delle istituzioni europee.
Il vizio originario non ebbe evidenti effetti distruttivi nei tempi felici dello sviluppo e del benessere crescente. Il funzionalismo poteva funzionare. Ma, nel tempo del malessere che è il nostro, l’egoismo fa inevitabilmente risorgere forze che alimentano le pretese di sovranità separate. Facile la cooperazione, quando tutto va bene; difficile, quando molto va male. Il progetto dell’integrazione corre ora costantemente il rischio di infrangersi, di arenarsi o di trasformarsi in maschera del predominio dello Stato e dell’economia più forti: una forma dissimulata di colonizzazione alla quale si contrappone non la solidarietà europea, ma la difesa degli interessi nazionali contro altri interessi nazionali. Andare a Bruxelles a “battere i pugni”, per i deboli contro i forti (Italia e Germania, per restare all’attualità), significa probabile sconfitta dei primi e sicuro tradimento degli ideali europeisti. Ma, per parlare una lingua diversa, occorrerebbe una “classe politica europea” dotata di respiro e cultura. Quanto di buono c’è stato in passato, s’è perso in chiacchiere. I discorsi seri paiono essersi rifugiati nella riflessione degli studiosi, come in quella instancabile e meritoria di Antonio Padoa- Schioppa ( Verso la federazione europea?, il Mulino).
Del resto, che cosa ci si sarebbe potuti aspettare da una classe politica formata, stabilizzata e ramificata nei partiti politici che conosciamo? Tanto Il Manifesto di Spinelli, quanto il Progetto di Galimberti immaginavano un’organizzazione pubblica che ne facesse a meno. Su questo punto, concordavano anche il Piano costituzionale dettato nel 1944, poco prima della morte, da Silvio Trentin al figlio Bruno, e le idee di Comunità di Adriano Olivetti: tutte espressioni dell’aspirazione federalista di quel tempo. Nei decenni successivi, fino a noi, si ripete il tòpos che non può esserci democrazia senza partiti. Eppure, nessuno dei nomi citati potrebbe essere accusato di qualunquismo, di antipolitica, di antidemocrazia. Essi prevedevano le degenerazioni del nostro regime di partito. Spinelli ne temeva l’aspetto necessariamente ripiegato su interessi e sistemi di potere interni agli Stati. Alimentandosi di voti, affiliazioni corruttive e consensi che producono voti, i partiti avrebbero coltivato conventicole e avrebbero prodotto «vecchi uomini politici coperti di guidaleschi» (piaghe, scorticature degli animali da soma). Gli altri consideravano il partito nazionale la sostanza politica funzionale allo Stato sovrano accentrato. Essi immaginavano forme di partecipazione alla gestione degli svolgimenti pubblici di natura diversa a partire dalle cerchie d’esperienza, dove la politica s’integra con la vita concreta degli individui in tutte le sue dimensioni, sociale, economica e culturale. A partire dalla dimensione elementare, l’esperienza politica si sarebbe progressivamente dovuta allargare a cerchie sempre più vaste, fino a raggiungere la dimensione federale europea. Quelle idee furono tutte sconfitte. La loro realizzazione, allora, avrebbe comportato una vera e propria rivoluzione del modo di vivere in società, una metànoia dai tempi lunghi, incompatibili con le esigenze immediate della ricostruzione postbellica. Onde facilmente le si poté accantonare come utopie. Oggi ci troviamo di fronte a compiti ricostruttivi. Tutti coloro che fanno buon uso delle capacità di comprensione concorderanno nel ritenere che siamo in un momento di passaggio. Sappiamo che cosa è stato e davanti a noi si aprono due possibilità. L’Europa può implodere su se stessa o può trarre dalle difficoltà la forza per procedere verso una vera integrazione federale. La politica nelle forme partitiche della democrazia ha ormai raggiunto nella coscienza dei cittadini, a torto o a ragione non è questo il punto, il grado zero di credibilità. Quando l’astensionismo di massa supera il cinquanta per cento, la democrazia non è più tale e si trasforma in autocrazia d’una parte della società sull’altra. Siamo di fronte a un pericolo che si erge minacciosissimo innanzi a noi. Anche qui si apre un bivio: o il vuoto che sarà comunque riempito facendo a meno della democrazia, oppure un lungo e faticoso ripensamento della democrazia dei partiti che sta così clamorosamente portando al fallimento.

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