«Contro antieuropeisti e mercatisti, la terza via è la Lista Tsipras. Per tornare alla civiltà, alla cultura del Vecchio Continente. Per riaccendere la corrente dell’Europarlamento»
Siamo in un momento cruciale. Ciascuno dia il contributo che è nelle sue possibilità». Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, giurista e intellettuale di fama, guarda con molto interesse all’iniziativa che fa capo ad Alexis Tsipras, in vista delle prossime elezioni europee: «C’è bisogno di un sussulto di consapevolezza. E c’è poco tempo: dedichiamolo a spiegare perché l’Europa ha bisogno di una scossa e a chiarirne i contenuti da presentare agli elettori».
Professore, lei sostiene che questa scossa può venire soltanto da un’affermazione del progetto che incarna il 39enne leader della sinistra greca. Perché?
Prescindiamo un momento dai nomi, guardiamo prima al quadro d’insieme. Alle elezioni di maggio si affronteranno due mastodonti: da una parte, gli antieuropeisti, che sono tali in nome della reazione all’Europa della finanza che sta influendo pesantemente sulle libertà democratiche dei Paesi in difficoltà; dall’altra, l’Europa degli interessi della finanza incarnati dagli Stati forti che impongono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovranità chiuse, al nazionalismo. Gli altri vogliono il mantenimento dello status quo. Di fronte a questi due giganti, c’è una terza possibilità, rappresentata dall’iniziativa di Tsipras: è il recupero dell’idea di Europa dei padri fondatori, che pensavano che l’integrazione economica fosse solo il primo passo verso una piena integrazione politica. Inoltre, essendo un leader greco, la figura di Tsipras ha anche un aspetto simbolico, sia perché lì stanno le origini della nostra civiltà, sia per la situazione in cui attualmente versa quel Paese: non so se ci rendiamo conto che qualche mese fa ha chiuso l’Università di Atene.
Lei esclude, dunque, che un simile ruolo di rottura possano giocarlo i socialisti guidati dal tedesco Martin Schulz…
Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si confronteranno le due forze di cui dicevo — nazionalisti e «mercatisti» — alla fine la socialdemocrazia farà blocco con i conservatori, nella logica delle larghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la paralisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsipras è accusata di essere l’ennesimo tentativo minoritario, settario, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di questo modo di ragionare. Penso che la questione Europa non si esaurisca nell’allentamento del vincolo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Intendiamoci: mettere in discussione i rigidi vincoli finanziari, come dicono di voler fare i socialisti, è propedeutico alle necessarie politiche di sviluppo, ma è pur sempre un aggiustamento all’interno della logica che attualmente regge l’Ue. Noi vogliamo riappropriarci dell’idea dei padri fondatori, che non si limitava alla dimensione mercantile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di riferimento per il mondo, basato sulle sue acquisizioni civili e sociali. E se ciò potesse esistere, sarebbe anche un elemento d’equilibrio nei rapporti internazionali: una dimensione totalmente estranea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mondiale e che non fa nulla affinché, ad esempio, i diritti sociali siano riconosciuti anche nei Paesi di nuova industrializzazione. Ma per farlo, dovrebbe prima esistere come entità politica: per me, la lista Tsipras, scontrandosi con gli interessi delle nazionalità chiuse e con quelli dei mercati globali de-regolati, è un progetto che ha come primo obbiettivo costruire l’Europa come autentico spazio politico democratico. Siamo persino ancora «al di qua» di una divisione fra destra e sinistra.
Anche lei condivide, come i promotori dell’appello per la lista Tsipras, la necessità di cambiare i trattati, magari attraverso un processo costituente. Sbaglio?
No, non sbaglia. Questo è ciò che dicono giustamente il movimento federalista e, in generale, tutti gli europeisti più avvertiti. Siamo in un momento in cui o si pone seriamente il tema della democratizzazione delle istituzioni europee o andremo incontro a un progressivo deperimento dell’idea di Europa unita.
A proposito del processo costituente non sarebbe come fare una costituzione senza popolo, senza un demos europeo…
Anche secondo me non si può fare una costituzione senza un popolo europeo, che attualmente ancora non c’è. Ma ciò non significa che abbiano ragione coloro che sostengono l’ipotesi «funzionalista». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza democrazia, c’è solo la tecnocrazia. Non può reggere l’Ue senza una sorta di «patriottismo» europeo, legato alla nostra consapevolezza orgogliosa di quella parte della storia dell’Europa che ha generato tolleranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, protezione per i deboli, rifiuto di quel darwinismo sociale che, sotto forma di iperliberismo, sta invadendo il mondo. Una storia fatta anche dalle sue culture politiche: illuminismo, socialismo e solidarismo cristiano. Oggi, purtroppo, c’è un impedimento oggettivo alla possibilità di una costituzione europea: l’indisponibilità alla solidarietà fra Paesi. E se non c’è disponibilità dei forti a condividere la fragilità dei deboli, non c’è costituzione che tenga.
Pensa che la Carta dei diritti fondamentali di Nizza sia una leva per aprire delle contraddizioni all’interno del diritto comunitario vigente?
Quella Carta doveva essere la base di tutto, perché fondava la cittadinanza europea. È stata criticata per essere sbilanciata sul piano dei diritti individuali rispetto a quelli sociali, ma il problema è che non è mai entrata davvero nel «sangue» che circola nella Ue: è vigente, ma è anche effettiva? Decisamente più «viva» è la Convenzione europea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Strasburgo. Va detto, tuttavia, che il terreno puramente giuridico è importante, ma non è quello determinante: di fronte alla bufera finanziaria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha bisogno di essere alimentato dal basso, dalla partecipazione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, bisogna certamente insistere sul fatto che una realtà come la troika (Commissione, Bce e Fondo monetario, ndr) non ha alcun fondamento giuridico: in base a cosa vanno a controllare i conti dei Paesi come la Grecia? Non c’è né legittimità né legalità. Eppure, i suoi controlli e responsi contabili contano molto di più dell’Europarlamento, e possono addirittura aprire la strada al fallimento degli stati. Un tema, quello del fallimento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.
In che senso?
Fino a qualche tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fallire. Se oggi non respingiamo questo accostamento è perché accettiamo senza accorgercene la degradazione dello Stato a società commerciale. Ma non può essere così, è una contraddizione in termini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non possiamo partecipare a un’istituzione come la Ue se essa prevede, tra i suoi strumenti, il fallimento dei suoi membri: uno strumento capace di annullarne le istituzioni democratiche. Da costituzionalista, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costituzione, che dice che si può limitare la sovranità a favore di istituzioni sovranazionali, ma a condizione che esse servano la pace e la giustizia tra i popoli. Se servono non a questi, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsipras ci si impegna per sconfiggere i due mastodonti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni possibile collaborazione per una Europa di pace e di giustizia.
C’è chi ha criticato l’idea di questa lista perché sarebbe ostile ai partiti, quasi il frutto di una sorta di grillismo da intellettuali. Come risponde?
Io credo al ruolo insostituibile dei partiti, e penso che la politica — come insegna Max Weber — debba essere anche una professione. Se ci guardiamo attorno, però, dobbiamo dire che in Italia non sempre ciò che si chiama «partito politico», è davvero «politico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la politica? Dietro la lista Tsipras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pienamente politica di organizzazione di bisogni, interessi e prospettive: mi auguro che questa esperienza possa servire a motivare una parte di elettorato che non va più a votare, sceglie il Movimento 5Stelle o è delusa del partito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sempre più grande di popolazione, che — non credo ci sia nemmeno bisogno di dirlo — è composta di molte persone di valore, di una parte buona di società.
La professione cui si riferisce Max Weber per qualificare la politica si fonda sulla responsabilità individuale e sul merito. In quel caso la visione della società (capitalista) si poggia sull’etica protestante. Ben poco a che vedere purtroppo con la situazione italiana. Quanto poi all’ondata di entusiasmo in corso tra le file del popolo di sinistra per l’adesione alla lista Tsipras, non trova singolare che coloro che all’epoca dell’intervento americano in Irak proclamavano che la democrazia non fosse esportabile, oggi si apprestano ad importare il socialismo tramite una lista greca? Si tratta di una esercitazione della coscienza europeista, ahimè in declino anche in Italia, o forse dell’incapacità di produrre idee di rinnovamento e selezionare un leader che ne sia all’altezza?
E’ tempo che dall’ unione economica dei paesi europei nasca quella costituzione che l’europa non ha ,per dare ai cittadini europei quel fondamento giuridico necessario alla loro difesa dagli eccessi e dalle storture del liberismo sfrenato ,questo non per ostacolare lo sviluppo e il benessere economico dell’europa,ma per fare in modo che le attività che liberamente si svolgono nel mercato producano ” bene per tutti in misura ragionevole”.
Questa splendida intervista è la dimostrazione di quanto stretta sia la relazione tra l’ inadeguatezza di questa Europa mercantile e la crisi delle democrazie parlamentari dei singoli Stati membri, tra i quali il nostro.
Condivido, quindi, la lettura che il prof.Zagrebelsky dà dell’ iniziativa Tsipras che mira a recuperare l’ idea originaria di un Europa ‘ entità politico-culturale , punto di riferimento per il mondo, basato sulle sue acquisizioni civili e sociali ‘. Ciò che la UE oggi non è proprio perché l’ Europa non esiste ‘ come autentico spazio politico democratico ‘. Tanto è vero che la Commissione Lavoro e Affari Sociali del Parlamento Europeo, nel bocciare le politiche di austerità messe in campo dalla Troika, ha dovuto amaramente constatare che ” il Parlamento europeo è stato completamente tagliato fuori da ogni processo decisionale in materia di lotta alla disoccupazione e garanzia di protezione sociale “. La scossa, quindi, che Tsipras può dare a questa Europa umiliata e snaturata dalla cecità della Troika ‘ è quella che si augura anche Guido Rossi quando scrive che ” la ripresa dell’ Europa ha un senso solo se , insieme a un rafforzamento istituzionale democratico, la politica economica e finanziaria subisce un radicale cambiamento, sicchè, abbandonata la frenetica fissazione del debito, si orienta verso la tutela dei diritti, la lotta alla disoccupazione, l’ abbandono dei vetusti canoni del neoliberismo, riprendendo le fondamentali tradizioni di civiltà europea per ridurre le disuguaglianze sempre crescenti e poter costituire così anche un punto di riferimento globale “.
Giovanni De Stefanis, LeG Napoli
18 febbraio 2014
Sono totalmente d’accordo col professor Zagrebelsky, tranne che su di un punto.
Io non penso che “… la politica – come insegna Weber – debba essere anche una professione”.
Anzi penso che la politica come professione sia una delle ragioni, delle cause (forse non l’unica, ma una di esse, sì) della degenerazione della politica.
Un po’ come il sacerdozio (inteso come professione) lo è nelle Chiese.
In entrambi i casi, infatti, l’effetto (inevitabile: lo dice la storia) è la separazione del politico dal resto della polis, del sacerdos dal resto dell’Ecclesìa.
E la separazione produce privilegi. E i privilegi generano le caste.
Diverso era (e non a caso) il presbiterato nelle prime comunità cristiane. Il presbitero non era il cristiano che sceglieva di farsi prete (e quindi sceglieva questo stato, quasi, come una professione).
Il presbitero (lo dice l’etimo stesso della parola) era l’anziano che veniva scelto per le sue qualità (dimostrate in genere nel corso di una lunga vita) dalla sua comunità di appartenenza a farle da “pastore”, cioè da guida.
Il presbitero, quindi, dopo una vita “normale”, vissuta da cristiano tra i cristiani, veniva scelto dai cristiani della sua comunità come persona cui veniva riconosciuta “l’autorità”. Non era dunque lui a scegliere di fare il presbitero, cioè di farsi “autorità”.
Io credo che la stessa cosa possa valere ed essere applicata anche nella comunità laica degli uomini, cioè nella polis.
Io credo che il politico debba essere scelto a fare da guida alla comunità di cui è parte, per le sue competenze (certo!), per le sue qualità, ma dopo averle dimostrate ampiamente e per un tempo sufficientemente lungo in una vita normale, da semplice cittadino, in una delle professioni o attività che svolgono i semplici e normali cittadini.
Io credo che nessun cittadino possa e debba decidere (per le sue ambizioni) di diventare guida della comunità, come se questo status fosse quello di una qualsiasi altra professione intellettuale (quella dell’avvocato o del notaio o del medico o del professore).
Ma che debba essere la comunità a chiamare, a designare un cittadino (uno dei suoi cittadini) a fargli da guida autorevole e a eleggerlo ad un ruolo istituzionale ai vari livelli.
E sempre per un tempo limitato. Per evitare i rischi della “separazione”, della formazione del “ceto”, che tanti danni ha fatto nel passato e fa ancora oggi, come la storia ha dimostrato e le cronache recenti dimostrano ancora ampiamente.
In questo modo si garantirebbero le competenze e le qualità, che indubbiamente vengono richieste per ricoprire i ruoli e gli incarichi di chi fa politica.
Ma nello stesso tempo si eviterebbero o, perlomeno, si limiterebbero i rischi di involuzione burocratica, di accentramento di poteri, se non di veri e propri abusi e illegalità, che molte (troppe!) volte si legano al ruolo del “politico di professione”.
Giovanni Lamagna (Napoli)
Mi sono iscritto alle liste Tsipras perchè convinto che l’Europa debba fare un salto di qualità, prchè convinto che ci siano alternative vincenti al “pensiero unico” della “grande coalizione”. E’ fondamentale che l’Europa si doti di una sua Costituzione. E quale miglior punto di partenza se non la Costituzione Italiana.
renato Frabasile scrive
“Quanto poi all’ondata di entusiasmo in corso tra le file del popolo di sinistra per l’adesione alla lista Tsipras, non trova singolare che coloro che all’epoca dell’intervento americano in Irak proclamavano che la democrazia non fosse esportabile, oggi si apprestano ad importare il socialismo tramite una lista greca?”
Questa è l’accusa d’incoerenza più ridicola che mi sia capitata di leggere. La democrazia non è esportabile in punta di fucile, ma le idee di uguaglianza e libertà non hanno confine. Non mi risulta che Tsipras voglia invadere la Germania, o no?
Sono grato all’ amico Lamagna per questo suo intervento che mi permette di riprendere l’ importante passaggio conclusivo dell’ intervista in cui il prof.Zagrebelsky – fedele alla missione di LeG che è quella di ‘ collante ‘ di una società disgregata – ribadisce che quelle associazioni di cittadini che si riuniscono liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, cioè i partiti, hanno un ruolo insostituibile. Un ruolo che Zagrebelsky sa perfettamente essere entrato in profonda crisi ma non tanto per una sua degenerazione – per così dire – ‘ professionale ‘, ma, semmai, per l’ esatto contrario. Finchè, infatti, i partiti sono stati in grado di esprimere un ‘ personale ‘ capace di elaborare idee , di formare coscienze, di analizzare in profondità le cause – nazionali e internazionali – dei tanti problemi che compromettono lo sviluppo democratico della polis ( e dei singoli cittadini ) e individuare – attraverso confronti e mediazioni – le soluzioni migliori e più condivise a quei problemi, finchè tutto ciò è stato possibile la ‘ separazione ‘ tra società civile e mondo della politica non è mai stata tale da originare il senso di frustrante distacco che oggi tutti avvertiamo. Pur in presenza di scandali , non meno gravi degli attuali , e in contesti ancora più drammatici degli attuali : penso alle stagioni dello stragismo , del brigatismo, dei servizi deviati, ecc.
E’ da quando la politica è stata occupata dai professionisti ‘ impolitici ‘ del business e del profitto, delle logiche mercantili e dell’ efficientismo aziendalista, del voto utile e dell’ audience a-critica, del carisma telegenico e della democrazia plebiscitaria della rete, che lo scollamento si è fatto quasi irreversibile e la partecipazione dei cittadini rabbiosa, avvelenata, distruttiva.
Per ricucire questa pericolosissima ( per la democrazia ) lacerazione tra mondo della politica e società dei cittadini occorre tornare a vivere ‘ PER ‘ la politica e non ‘ DI ‘ politica, secondo la celebre distinzione weberiana. Ma lo si potrà fare solo se interverrà una ‘ Legge sui partiti ‘ che dia finalmente attuazione all’ art.49 della nostra Costituzione.
Giovanni De Stefanis, LeG Napoli