Proteste e disuguaglianze

18 Ott 2011

Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, l’intervento per il convegno della Banca di Sondrio del 17 ottobre. Il punto, dopo le devastazioni, sulle manifestazioni di Roma, per riannodare il filo del ragionamento e andare alle origini del dissenso

Mi ha deluso e umiliato che a Roma, nel giorno della protesta globale dei cosiddetti indignati, si sia scatenato l’inferno cui tutti abbiamo assistito. Mi ha umiliato perché ancora una volta il nostro Paese si è segnalato nel mondo nel modo più negativo possibile. Mi ha deluso perché quei duecento idioti e criminali hanno di fatto impedito, in Italia, una discussione serena e approfondita sulle ragioni, che ci sono e in parte sono valide, della protesta che ha coinvolto mezzo mondo.
A distanza di qualche giorno, però, si può forse provare a riannodare il filo del ragionamento e ad andare alle origini di quelle manifestazioni plateali di dissenso. Ripeto: non quelle violente, perché in quel caso servono solo bravi criminologi.
Si è detto che la denuncia degli abusi della finanza, al di là di alcune poderose ingenuità e di radicalizzazioni inaccettabili, è sacrosanta. Anche Draghi e Trichet lo hanno in qualche modo riconosciuto. E io sono d’accordo con questa tesi: aver permesso che si generasse un’economia di carta il cui valore è stimato in sette volte quello dell’economia reale, aver ideato e consentito strumenti finanziari in grado di moltiplicare sul nulla il valore dei beni, è stato qualcosa da irresponsabili. Allo stesso modo le politiche di corporate governance che prevedevano per manager e dirigenti bonus esponenziali sulla creazione a breve di valore di borsa hanno prodotto distorsioni ed inefficienze nel funzionamento del mercato, esponendo quello che resta il migliore dei sistemi economici che abbiamo conosciuto – il mercato appunto – a critiche sempre più vaste.
Ma c’è qualcosa di più in quelle proteste. Io credo sia la rivolta verso la percezione del riaffermarsi nelle nostre società occidentali di diseguaglianze sociali che non si conoscevano dalla prima età industriale. Uno che se ne intendeva di queste cose, John Rawls, ha evidenziato che quando le differenze superano un certo limite chi ha di meno “comincia a credere che le ineguaglianze esistenti sono basate sull’ingiustizia”.
Ebbene quel limite oggi è stato abbondantemente superato.
Mai, negli ultimi 50 anni, così tanti americani avevano vissuto in povertà come oggi. Non sarà un caso se in questi mesi la Cnn ha lanciato una serie speciale che si intitola “Living in poverty”, vivere nella povertà.
Nel 2010 oltre 46 milioni di cittadini Usa sono finiti sotto la soglia di povertà. Il tasso di povertà è così cresciuto al 15,1%, il più alto dal 1993, un punto in più rispetto all’anno precedente. Nello stesso tempo le famiglie che guadagnano più di 100mila dollari sono cresciute. Oggi l’1% della popolazione americana detiene il 40% della ricchezza dell’intera nazione. E il dato più impressionante è che circa un quarto dei bambini americani vivono in povertà.

La divergenza tra queste due Americhe diventa ancora più evidente se si ragiona di stipendi. Mentre il reddito mediano è tornato ai livelli del 1969, infatti, il 2% dei maschi adulti che stanno in cima alle classifiche degli stipendi ha visto aumentare i propri guadagni del 75%. E ancora: secondo la lista Forbes dei Paperoni d’America, i 400 miliardari hanno visto la loro ricchezza, in quest’anno di crisi, salire ancora del 12%.

Il Financial Times ha parlato di un effetto a due velocità della crisi, con i più ricchi che mantengono la loro capacità di spesa mentre un numero crescente di cittadini cade in povertà. Neanche il lavoro appare più una garanzia anti-povertà. Charles Blow sul New York Times ha sottolineato che tra i 46 milioni di poveri americani “la maggioranza non sono affatto disoccupati. Anzi i due terzi hanno un posto di lavoro, la metà ha addirittura un posto a tempo pieno».

Non solo, dunque, i giovani non trovano lavoro, ma se lo trovano sono condannati a salari irrisori rispetto a certi bonus e certe retribuzioni. Gli ultimi dati ci dicono che la caduta di reddito più pesante nel 2010 è quella che ha colpito la generazione tra i 16 e i 24 anni: meno 9%. Il 45% della fascia compresa tra i 25 e i 34 anni si trova sotto la soglia della povertà, ed è aumentato del 25% il numero di coloro che devono abitare sotto lo stesso tetto dei genitori.

Sono proprio le nazioni appartenenti al G-8, secondo un rapporto pubblicato quest’anno dell’Ocse, quelle dove le diseguaglianze sono aumentate di più. In testa alla classifica troviamo appunto gli Stati Uniti seguiti a ruota dall’Italia, il Regno Unito, la Spagna ed il Canada, a metà strada ci sono la Francia e la Germania, mentre i paesi ‘virtuosi’ sono Svezia e Danimarca.
In Italia sempre, nel 2011, il 10% delle famiglie più ricche detiene il 45% della ricchezza complessiva. Negli ultimi dieci anni, mentre il reddito pro capite italiano scendeva dal 117 per cento del reddito medio europeo al 100 per cento, l’indice di diseguaglianza è salito dal 4,8 al 5,5: cioè il 20% di italiani più ricchi dispone di un reddito 5,5 volte più elevato di quello del 20% di italiani più poveri.

A pagare sono sopratutto le famiglie con figli e, ancora una volta, i giovani: un giovane su due non trova una occupazione e uno su quattro né studia e né lavora.

Sono dati della Banca d’Italia, perciò non c’è da stupirsi delle parole di comprensione di Draghi in merito alle proteste di questi giorni. Da tempo il governatore ci ricorda come proprio i giovani stiano subendo i contraccolpi più forti della crisi che dal 2008 ha colpito l’economia mondiale. Stiamo “mettendo a repentaglio non solo il loro futuro ma quello del Paese intero”, ha sostenuto. Una difesa è costituita dalla famiglia. Ma ora anch’essa si sta impoverendo: “Tra il 2007 e il 2010 il reddito equivalente, ovvero corretto per tenere conto della diversa composizione familiare, è diminuito in media dell’ 1,5 per cento”.

Sono cifre che non possono lasciare indifferenti. E fanno capire bene la rabbia dei giovani che hanno sfilato per le strade di tutto il mondo. Citavo appunto John Rawls e la sua teoria della nascita del sentimento dell’ingiustizia. Sono convinto che siamo a quel punto, che c’è davvero qualcosa che si è rotto nelle nostre società.
Si pone drammaticamente una questione di giustizia sociale. Cosa c’è se non questo negli slogan gridati nei cortei contro l’ingordigia del sistema finanziario internazionale? Se a Davos prestigiosi banchieri quest’anno sono tornati a rivendicare il diritto di distribuire bonus principeschi, dopo la stagione dell’austerità, è inevitabile che il loro mondo diventi poi il bersaglio dell’insoddisfazione e delle paure di questi giovani senza futuro.
Servirebbe la responsabilità di capire che davvero la festa, per una certa finanza, è finita. E servirebbe – questo va detto – anche una presa di coscienza a livello più generale sul fatto che non si può comprare benessere a debito in eterno, perché prima o poi qualcuno ti presenta il conto.
Ma servirebbe soprattutto la politica. Sono anni che discutiamo delle nuove regole mondiali della finanza e posso assicurare che non si è visto ancora niente o quasi. Qualcuno ha visto sorgere l’annunciata era della nuova Bretton Woods? Parole, tante parole sono state pronunciate dai leader di tutto il mondo. Ma tra G-20, G-8, G-2 e altre possibili variabili del “G” siamo ancora qui ad aspettare.
Dov’è la politica su questo? Perché è la politica che deve scrivere le regole. Non ci si può aspettare che siano le grandi organizzazioni tecnocratiche a darsi nuove regole. Il Financial stability board, sotto la guida di Draghi, ha fatto un grande ed utile lavoro. Ma se i capi di Stato e di governo non rompono gli indugi e, mettendo da parte le divisioni tra le sponde dell’Atlantico e tra l’Occidente e i paesi emergenti dell’aera asiatica, non trovano una base d’intesa per introdurre regole condivise, tutto quel lavoro andrà sprecato.
Sia chiaro però che non è solo un problema di regole finanziarie. Quelle disparità, quelle inaccettabile diseguaglianze sociali che stanno disgregando le nostre società, richiedono interventi a tutto campo. Grandi riforme, che coinvolgano i sistemi fiscali, quelli di welfare, i modelli educativi e formativi. Se il mondo cambia, dobbiamo saper cambiare anche noi.
E allora torno a domandare: dov’è la politica? Dov’è la sinistra innanzitutto, che è nata e cresciuta all’inizio del secolo scorso proprio sulla questione sociale. Ma dov’è la politica tout court dinanzi a un problema che non rimanda solo il valore di una società più giusta, riguarda l’esistenza stessa di un futuro per le nostre società.
Tocqueville partì proprio da qui per celebrare la vitalità della società americana. “Fra le cose nuove che attirarono la mia attenzione – esordisce nella sua ‘Democrazia in America’ – una soprattutto mi colpì assai profondamente e cioè l’uguaglianza delle condizioni. Facilmente potei constatare che essa esercita un’influenza straordinaria sul cammino delle società, dà un certo indirizzo allo spirito pubblico e una certa linea alle leggi, suggerisce nuove massime ai governanti e particolari abitudini ai governati”.

Siamo alle radici stesse delle nostre società liberali e della continua ascesa, nel benessere, che esse ci hanno garantito. Perciò quei dati sulle nuove differenze devono preoccupare noi tutti, destra e sinistra, ricchi e poveri.

E’ in gioco, in quelle cifre, il futuro delle società occidentali. Comunità dove va aumentando il differenziale tra i tanti che hanno poco e i pochi che hanno molto sono realtà declinanti, economicamente e socialmente malate.

Secondo l’economista Dan Ariely le diseguaglianze “rendono impossibile l’unità di una nazione, perché creano barriere insormontabili tra un gruppo e un altro, generano società multiple, frammentate, incapaci di parlarsi”. A rimetterci, alla fine, sono tutti, anche i più ricchi, come sostengono più Richard Wilkinson e Kate Pickett nel loro “The spirit level”, uno studio che dimostra come le società più ineguali abbiano maggiore criminalità, suicidi, droghe, patologie, discriminazioni.

L’ascesa dei meno abbienti verso il ceto medio, del resto, e il progressivo affermarsi di quest’ultimo a discapito delle estreme della gerarchia sociale è stato per decenni l’elemento più vitale delle nostre società. L’affermazione nel mondo dell’Occidente è stata proprio legata a quest’ascensore sociale, che dava dinamismo, forza, proiezione verso il futuro.

E’ anche la storia del Dopoguerra italiano, del boom economico e delle conquiste sociali. Ricordo mio nonno. Faceva l’avvocato. Era una persona che si era fatta con i propri studi e il proprio lavoro. Aveva sette figli. Era ceto medio. E sentiva il futuro nel proprio lavoro. Dov’è oggi il futuro del ceto medio? L’Istat, il Censis, ci dicono che quella classe intermedia vede il proprio destino scivolare verso il passato e affida ai propri figli anni incerti e declinanti.

Come ha sottolineato il bravo Carlo Carboni il ceto medio va sempre più schiacciandosi verso la parte bassa della società, l’ascensore sociale è di fatto bloccato, il merito è sempre meno un possibile fattore di ascesa e di rinnovamento tra i ceti. “Il ceto medio – cito le sue parole – è andato in crisi in tutto il vecchio mondo occidentale, trascinando con sé declino di fiducia e di stabilità; mentre la creazione del ceto medio tra i new competitors è fonte di nuovo consenso, di partecipazione al progetto di crescita. In breve, il sogno della società di ceto medio è evaporato negli Usa come in Italia e, ovunque, si segnala la ripresa delle disuguaglianze socioeconomiche”.

Non poteva essere detto meglio. Ecco un buon tema da affrontare per la politica di oggi, debole e disorientata dalla mancanza di consenso. Un tema da cultura politica sinceramente liberaldemocratica. Perché è proprio contro la ricchezza diseguale, contro le disparità che si perpetuano e si allargano, che la cultura liberale lanciò oltre due secoli la sua sfida facendo da infrastruttura ideologica della borghesia, come classe media, in ascesa.

C’è un’agenda della politica da rivedere. Non è un caso se lo stesso Economist, bibbia del liberismo, sottolinea come sia venuto il momento di tassare ricchezze che “sono cresciute in modo sproporzionato in questi anni di globalizzazione”. Non si tratta di dare la caccia ai ricchi, come titola il settimanale in copertina. Ma almeno di “spostare il peso della tassazione dai redditi e dagli investimenti alla proprietà”, in modo da “raccogliere di più dai ricchi senza indebolire la predisposizione a rischiare e a investire”.

Ci sono poi le nuove regole sulla finanza internazionale che non possono essere ulteriormente rinviate. E io non sono sfavorevole, per nulla, a una tassazione delle transazioni finanziarie internazionali, anche se andrebbe introdotta con grande attenzione in considerazione del carattere planetario di questi movimenti.

Solo così potremo uscire dalle secche della più difficile crisi economica dal ’29. Ma in ballo non c’è solo l’uscita da questa crisi. In questa capacità di combattere le ragioni profonde delle nuove diseguaglianze e di ripristinare il dinamismo sociale, la possibilità di ascesa da parte di chi ha a meno, c’è una sfida anche più grande. Perché le nostre società occidentali potranno reggere l’impatto della globalizzazione e dell’ascesa dei giganti asiatici solo se sapranno recuperare il gusto e l’ambizione del dinamismo e della giustizia sociale.

Già anni fa Paul Kennedy coglieva nell’accentuarsi delle diseguaglianze uno dei possibili segnali del declino della potenza americana. Lo storico americano è stato tra i primi a leggere lo spostamento dell’asse del mondo dall’Occidente ai Paesi emergenti, dalla Cina al Brasile. E lo ha fatto attraverso i dati sociali, ancor prima che quelli economici o politici.
In fondo i ragazzi che protestano, quelli che ragionano non i criminali che tirano pietre, chiedono nient’altro che sottrarsi a questo destino di declino. Perché – mi chiedo – la politica non prova davvero ad ascoltarne, se non le soluzioni proposte, almeno le istanze? In fondo, come ha sostenuto Paul Krugman, “le Persone Tanto Coscienziose – sono parole del Nobel americano – i sapientoni della finanza, non hanno fatto altro che fare errori, errori colossali e reiterati, sia prima che dopo la crisi finanziaria. Non c’è un solo elemento, nella storia recente dell’economia, che autorizzi a dare loro un qualche credito”.

Forse vale la pena ascoltarlo e provare a cambiare rotta.

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