Dal predellino alla catastrofe i 16 mesi crudeli del Pdl

29 Lug 2010

BREVE la vita e infelice del Popolo della Libertà. Dopo 16 mesi dalla tecno-apoteosi del congresso fondativo e fasullo, con il palco rock, i milioni di led, le riprese di riguardo e a planare, l’applausometro in delirio, e gli inni trionfali, il salottino per la supernomenklatura, le abbronzature invernali delle future veline. Ecco, a debita distanza dall’evento e dall’indubbia megalomania che aleggiava sui baracconi incantati della Fiera di Roma, si può concludere con qualche ragionevole cinismo che il “popolo” invocato in pompa magna al posto del convenzionale “partito” era forse un’entità troppo impegnativa. Almeno per come, tra alti e bassi, stop and go, rabbie e dispetti, interviste costruttive e distruttive, comunque sta andando a finire nel Pdl.

Quanto alla libertà, termine invero piuttosto generico in tempi abbastanza vuoti e crudeli, ci si limita a ricordare che sempre in quella fastosa occasione, quando Fini prese la parola per ben 55 minuti, con matematica e sistematica regolarità non solo disse sempre “partito”, ma ogni volta riferì “alle” libertà, plurale, e non all’unica e dogmatica libertà campeggiante sui grandi e ripetuti emblemi che dominavano la scena fondante e preliminare.
Ciò nonostante, conclusa la cauta e sinuosa controrelazione del “cofondatore”, il presidentissimo Berlusconi, che per tutto il tempo seduto accanto alla bionda Tulliani aveva annuito e pure fatto okay con la mano, ritenne di dover irrompere sul palchetto, anche a costo di interrompere lo scontato tripudio tricolore. E allora salì lì sopra, d’impeto, a larghe falcate, e buttò le braccia al collo di Fini e gli impresse un bacio, che l’altro accolse con impercettibile diffidenza per via della fitta coltre di cerone. Ma siccome Berlusconi è (anche) un grande uomo di spettacolo subito si mise alla destra del presidente della Camera, così conquistando una posizione di preminenza ottica oltre a una maggiore facilità di movimento.

Tra le macerie della politica e il deserto progettuale, il linguaggio dei corpi offre ottimi spunti di osservazione, forse anche di riflessione, sicuramente di ricordo. Per cui sembra di rammentare che la scena madre trovò il suo culmine nel momento in cui il Cavaliere con qualche sforzo distese il braccione sulle spalle di colui che già allora era il suo antagonista; e lo fece come se volesse, pensa tu, garantirlo, o proteggerlo.

Essendo Fini parecchio più alto di lui la muta sequenza rischiava un po’ l’effetto circo Barnum, con il che il presidente del Consiglio ritenne di esplicitare il senso di quel silenzioso balletto, di quel groviglio insieme tattile e tattico: “Ecco – disse – questo è per spazzare via tutte le malizie che io e Gianfranco non ci si voglia bene e non si condividano gli stessi ideali”.

Va da sé che dichiarazioni del genere, oltre a incoraggiare lo studio del linguaggio segreto dei corpi, autorizzano senz’altro il peggiore scetticismo riguardo alle atmosfere artificiali e agli sbaciucchiamenti fra i leader.

Non solo Fini s’era già opposto allo statuto cesaristico del Pdl, anche perché prevedeva la presidenza a vita per il fondatore; non solo aveva già provveduto a blindare le proprietà immobiliari e lo stesso simbolo di An; non solo sapeva perfettamente di non poter più contare sui colonnelli frustrati da anni e anni di suo dominio (una volta gli aveva fatto raccogliere firme a Ferragosto, per un inutile referendum). Ma nei giorni precedenti, sia pure senza clamori, aveva anche piantato una grana sull’inno che doveva risuonare in sala, prima bocciandone uno nuovo di zecca, poi impedendo che gli altoparlanti di ultima generazione rendessero all’uditorio “Meno male che Silvio c’è”.

Per la cronaca: furono emessi solo dei jingle, ma senza parole. Fini lasciò che il Pdl nascesse in quel modo. Allo stesso modo, contro ogni desiderio terminale di crash, ieri ha fatto sì che continuasse la vita stenta di quella creatura incerta fin nell’acronimo che dovrebbe caratterizzarla. Nell’uno e nell’altro caso, ieri come oggi, Berlusconi, che non è scemo, ha capito benissimo che il cofondatore rallenta la resa dei conti per assaporare la prosecuzione dello stillicidio, per prolungare la pena di un lungo e torpido logoramento.

Inutile dire che in 16 mesi il Pdl, con i suoi inutili, affaccendati e inguaiati coordinatori, ha conosciuto oltre a momenti di lite spettacolare come quella dell’Auditorium, terribili passaggi ancora segreti che si verranno a sapere a tempo debito, cioè quando tutto si sarà consumato, e dissipato. Ma ce n’è già quanto basta per indovinarne i contorni, che trascendono ovviamente il nobile dissenso sui soliti temi della laicità, dell’immigrazione, dei rapporti con la Lega.

Si va oltre ai presagi e alle coincidenze, tra i quali un dipinto in cui Fini è raffigurato come Bruto che accoltella il Cesare di Palazzo Grazioli (a proposito: il luogo dista non più di 150 metri). E’ roba tosta e per lo più puteolente, come succede negli scontri di potere senza troppe idealità in ballo. A scartabellare fra un bel pacco di ritagli s’incontrano bonifiche di cimici, dossier a luci rosse, rimarchevoli fuorionda, grembiulini e compassi, incontri segreti con nemici, viaggi di geopolitica risonanza.

Nel frattempo la democrazia un po’ langue, e non sembra che a ridarle vita servano molto espressioni come popolo e/o libertà.

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