Togliatti, il senso politico di un attentato

13 Lug 2010

Il 14 luglio del ’48, l’agguato. Covato nello scenario della campagna elettorale del 18 aprile. Senza contare che l’anno precedente il Pci, come il Psi, era stato escluso dal governo in un clima internazionale di aperta rottura tra Est ed Ovest, e in Sicilia c’erano stati l’attentato mafioso a Girolamo Li Causi e la strage di Portella della Ginestra

14 luglio 1948. Poco prima di mezzogiorno Palmiro Togliatti, in compagnia di Nilde Iotti, sta uscendo da un ingresso secondario della Camera diretto a Botteghe Oscure. Ad un tratto un gran colpo, seguito da altri. La prima pallottola fallisce il bersaglio. La seconda colpisce il segretario del Pci alla nuca, fecendolo cadere. Ma il piombo per fortuna si schiaccia contro l’osso. Un terzo proiettile trafigge un polmone di Togliatti, la ferita più grave. E’ in quel momento che Nilde Iotti si volta e vede Antonio Pallante, l’attentatore, che si avvicina – in mano ha una pistola a tamburo calibro 38 – per sparare ancora, a distanza ravvicinata. Istintivamente Iotti si getta su Togliatti urlando. Mossa e grido confondono Pallante facendogli sbagliare la mira: il colpo raggiunge Togliatti di striscio, ad un fianco. La rapidità degli eventi paralizza i pochi presenti. Iotti deve urlare perché non si lasci scappare l’attentatore, che verrà acciuffato, arrestato, processato: pena modesta perché – si disse – più che un fanatico era un mezzo infermo di mente.

L’attentato si tradusse in uno shock politico violentissimo. Tutti intuirono che potevano accadere fatti ancora più gravi. Mentre un’ambulanza trasportava Togliatti al Policlinico dove il famoso chirurgo Valdoni era già pronto per operarlo, già i negozi cominciavano ad abbassare le saracinesche per timore del peggio: la voce dell’attentato si era sparsa come un fulmine. E infatti nel primo pomeriggio il centro di Roma fu invaso da una folla immensa in protesta, e molto duri furono gli scontri con la polizia, che mulinava con le jeep della “celere”.

Fanatico o seminfermo di mente, ma soprattutto “atto isolato” come si affrettò a sostenere il ministero dell’Interno? Certo quel gesto era covato e cresciuto nel clima acutissimo della campagna elettorale del 18 aprile, dello scontro frontale di tre mesi prima. Senza contare che l’anno precedente il Pci, come il Psi, era stato escluso dal governo in un clima internazionale di aperta rottura tra Est ed Ovest, e in Sicilia c’erano stati l’attentato mafioso a Girolamo Li Causi e la strage di Portella della Ginestra. Disse qualcuno (e divenne quasi senso comune) che la immediatamente successiva vittoria di Gino Bartali al Tour di Francia “salvò la democrazia in Italia” stemperando quei momenti di paura. Pura banalizzazione degli eventi. Ed anche un modo per appannare il ruolo che, proprio in quei momenti, ebbe lo stesso Togliatti: mentre lo stavano caricando sull’ambulanza aveva sussurrato a Longo e Secchia: “State calmi, non perdete la testa”. Parlava con grande fatica, ma anche con grande lucidità raccomandando di mantenere i nervi saldi.

A testimonianza di come e quanto il Togliatti sempre realista (il “totus politicus” come aveva detto di lui Benedetto Croce) sapeva tener conto, anche in quei drammatici momenti, dei rapporti di forza esistenti nel Paese, la sua compagna mi rivelò quarant’anni dopo un episodio molto significativo. “Quando qualche giorno dopo l’intervento chirurgico – raccontò Nilde Iotti in una intervista – gli fu permesso di scorrere i giornali, Togliatti volle leggersi le cronache dell’attentato. Lo colpì, proprio sull’Unità, un titolone a nove colonne: ‘Via il governo della guerra civile’. Ricordo il suo commento: se avessero scritto ‘Via il ministro dell’Interno’, questa sì che sarebbe stata una richiesta non solo plausibile ma anche accettabile! E infatti più tardi si seppe che in Consiglio dei ministri, riunito d’urgenza lo stesso giorno dell’attentato, il ministro degli Esteri Carlo Sforza ed il suo sottosegretario, un giovanissimo Aldo Moro, avevano posto il problema delle dimissioni del ministro dell’Interno”.

Il ministro era Mario Scelba, la cui responsabilità più grossa non fu tanto e soltanto quella di non aver saputo prevenire l’attentato (ma su questa mancata protezione del Capo c’era stata anche, in polemica con la mancata vigilanza del Pci, la reazione furibonda di Stalin), ma soprattutto quella di aver poi teso nei fatti ad esasperare le tensioni di quei giorni con continui caroselli, sparatorie e cariche della polizia non solo a Roma ma ovunque per il Paese: due morti a Napoli, uno a Taranto, un altro a Firenze…

E quando a Torino una diecina di operai della Fiat decise di “sequestrare” l’amministratore delegato Vittorio Valletta, Scelba pensò di chiamare l’esercito. Fu lo stesso Valletta a bloccarlo, e a sgonfiare la protesta con una battuta sarcastica: “Intanto andate a lavorare, altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci”. Sempre Scelba pensò addirittura alla immediata chiusura di tutte le sedi del Pci come “misura di sicurezza”. Ma De Gasperi bloccò la proposta che, quella sì, avrebbe potuto far degenerare la situazione. Fu lo stesso De Gasperi ad esprimere a Togliatti la sua solidarietà. “Un gesto – chiosò Iotti –che ebbe un peso politico.”

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