Era il 16 aprile del 1994, al quarto scrutinio i deputati eleggevano Irene Pivetti alla presidenza della Camera. Sullo scranno occupato nelle precedenti legislature da Sandro Pertini, Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano, saliva la quintessenza dei “barbari” in politica: una trentunenne leghista che all’epoca dava anche vistosa testimonianza di cattolicesimo anticonciliare, fino al punto di rispolverare l’accusa di “deicidio” rivolta agli ebrei. I deputati di sinistra (allora si chiamavano “progressisti”, frutto della ben nota “macchina da guerra” messa in piedi da Achille Ochetto) restarono seduti ai loro posti, finché Nilde Iotti, volto pallido e teso, con un gesto perentorio ordinò: “Alzatevi, parla il presidente della Camera“.
Il gesto e l’ammonimento di Nilde Iotti mi sono tornati in mente in queste ore che ci separano dai risultati delle elezioni politiche. Non conosciamo ancora la misura esatta, ma siamo certi che decine e decine di “barbari”, questa volta incarnati dai neo-parlamentari del Movimento 5 Stelle, prenderanno posto sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama. Per una fetta dell’opinione pubblica – della quale mi sento parte – la tentazione di “rimanere seduti” è forte. Certo sono arrivati lì contestando in un certo senso il loro stesso ruolo, negando esplicitamente, ripetutamente e con enfasi il valore stesso della democrazia rappresentativa. Pensano se stessi come “altro” dai colleghi che siederanno loro accanto, da ciò che saranno essi stessi. Ma saranno i deputati e i senatori della Repubblica. “Tutti in piedi”, dunque.
E’ metaforicamente onorando (sì, “onorevoli”: perché no?) i membri del Parlamento e la loro funzione, quindi prendendoli sul serio che possiamo forse combattere una visione della politica tanto più autoritaria, quanto più si vuole “disintermediata”. Non sarà con gli anatemi, con le irrisioni, con le petizioni di principio che i “barbari” potranno essere vinti o convinti, non faremmo che rinforzare il loro pre-concetto, il loro pre-giudizio. Non serviranno – almeno per il momento – neppure i ragionamenti sulle cose da fare, avendo il movimento poche e confuse proposte, tenute insieme dalla ideologia cosiddetta “anti-casta”. Occorrerà invece lavorare sulle istituzioni, che anch’essi rappresentano, e sulle regole.
Il nostro quadro politico e la società italiana in genere non ha un gran concetto delle regole, le regole sono quasi sempre valutate in funzione “teleologica”, a seconda del fine. Sono buone regole quelle che portano buoni risultati. Raramente vediamo un apprezzamento per la regola in sé. D’altra parte regole e procedure esistono proprio per guidarci in tempi di crisi, nei conflitti estremi, sono totalemente inutili quando tutti sono d’accordo. Occorrerà comprendere e poi far comprendere che il conflitto degli interessi e dei principi è cosa ineliminabile nella società e che le regole delle istituzioni democratiche – per quanto deficitarie – servono a gestire questi conflitti, non ad eliminarli. L’eliminazione del conflitto in nome di più alti beni comuni è la più grave illusione autoritaria della Storia e questo occorrerà ricordare giorno dopo giorno a chi pensa sinceramente che invece sia auspicabile e possibile.
Tutto questo vale particolarmente per la stampa, che è già considerata tutt’uno con il blocco politico-partitico-affaristico contro il quale i militanti e gli elettori del M5S pensano di fare la rivoluzione. Il plastico simbolismo della “cacciata” dei giornalisti dal palco di piazza San Giovanni è il dato dal quale dobbiamo partire. Magari nelle prossime occasioni saranno un po’ più furbi, daranno qualche intervista, faranno qualche conferenza stampa, ma il dato è quello. Perché è assolutamente vero: possono materialmente fare a meno dei giornalisti per “diffondere il messaggio”.
Prima si faranno i conti con la realtà del tramonto dei giornalisti “accreditati”, prima sarà possibile interrogarsi seriamente su cosa fare e come farlo perché l’opinione pubblica comprenda la centralità della mediazione professionale che chiamiamo giornalistica ai fini di un sano sviluppo della democrazia nelle società di massa.
Penso che intorno a questo “cosa” e a questo “come” occorra una riflessione profonda, proprio partendo dalle “regole” che ci riguardano. Non regole da imporre con legge o con fiat di organi più o meno deputati (ordini professionali, ecc.) o pericolosi “tribunali della verità”, ma che si adottano liberamente, si comunicano trasparentemente e si cerca di osservare. Così facendo – forse – la stampa potrà aiutare a smontare la “cultura del sospetto” che è anche figlia storicamente del suo modo di raccontare il mondo.
Nel biennio 1992-1994, di fronte al crollo del sistema politico scatenato da “mani pulite”, la stampa italiana ebbe un’analoga storica occasione per ripensare se stessa e aiutare la società a comprendere quanto stava succedendo. Allora l’occasione non fu colta, ma allora erano ancora media analogici, giornali e giornalisti potevano non piacere ma non c’era modo di saltare la loro funzione di intermediazione informativa. Questo mondo è finito e se non si coglierà questa occasione il rischio è di ritrovarci sostanzialmente tagliati fuori.
Questo è lo scenario che i “grillini” auspicano. Per me è uno scenario da incubo.
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