Il dubbio

10 Nov 2008

Un esempio, la lettera ai volontari di New York per la campagna di Obama // Primo: il possibile candidato e un suo chiaro progetto politico. Secondo: la costruzione meticolosa e radicata nella società del consenso per sostenerlo. Sembra banale la formula per un rinnovamento profondo della politica e delle strategie che consentirebbero al centro sinistra disastrato di cominciare a guardare alla prossima legislatura senza dover contare sulla autodistruzione della destra oggi al governo.
Ma è possibile, da noi, pensare e muoversi in questa direzione? E’ possibile immaginare un rinnovamento così profondo della politica da consentire di realizzare un cambiamento profondo, una sorta di autentica rivoluzione che conquistasse la fiducia di generazioni diverse, dai diciottenni ai loro padri, dagli anziani a chi per la prima volta sarebbe portato ad associare un senso di positività alla parola “politica”?
E quanto siamo lontani dal poter non dico preparare, ma almeno puntare a qualcosa del genere, qualcosa che tutti abbiamo immaginato guardando all’America di Obama, seguendo i suoi primi passi da presidente eletto anche se non ancora insediato?
Si guarda in questi giorni agli Usa con un senso di ammirazione e insieme di invidia: è palese a tutti che niente di simile è possibile da noi, che si tratta di paesi assolutamente diversi, che nessuna esperienza può esser trasferita di peso da una situazione all’altra.

Tutto questo è persino banale premetterlo. Ma è meglio farlo, a scanso di equivoci.
Non è inutile invece cercare di capire cosa ha funzionato laggiù, per farne comunque tesoro, se è vero che il mondo è sempre più piccolo, che la gente è sempre più vicina nel tempo e nello spazio. Può servire ad esempio partire dal fatto che sia loro che noi siamo stati governati da personaggi come Bush e Berlusconi che nelle rispettive immense diversità la pensano però allo stesso modo su alcuni capitoli fondamentali della realtà contemporanea, impersonano tratti di “vecchiaia” abbastanza simili, e comunque sono ascrivibili a una destra conservatrice di esperienze e valori.
Primo, dunque, il candidato. Qui, veramente è impossibile se non inutile cercare da noi qualcuno che assomigli a Obama: il tratto fondamentale del nuovo presidente americano è questo suo esser cittadino del mondo, un individuo che ha le sue radici culturali e storiche in uno spazio immenso che va da Harvard a Giacarta alle Hawaii a Chicago e all’Africa profonda. Un altro così, difficile davvero trovarlo. Ti fa pensare quanto siamo piccoli noi, eternamente impegnati a rafforzare radici, a cercare radici, che certo devono esserci ma che devono allargare l’orizzonte di ognuno, non restringerlo e renderlo meschino, grigio, escludente.
Uno così non c’è da noi, ma forse non c’è nemmeno in altri luoghi, in altri paesi. Basterebbe molto meno. Basterebbe trovare qualcuno che avesse la forza di imporre la propria credibilità ed autorevolezza, la propria provata competenza un proprio progetto di Italia a tanti milioni di italiani di sinistra, di centro e di destra che avessero voglia di lavorare per cambiare la storia di questo nostro Paese.

E’ facile dire: se da noi ci fosse uno così, i capi e i capetti attuali dei partiti che per tanto tempo si sono autotramandati il potere lo farebbero fuori in men che non si dica, erigerebbero un muro invalicabile anche ai più coraggiosi supporter. Mi chiedo se questo sia assolutamente vero o se non ci sia in questa certezza anche una buona dose di pigrizia a cercare, a muoversi.
Secondo: il lavoro per costruire il consenso. Anche in questo caso il paragone con gli Usa è quasi impossibile. Obama ha avuto l’intuizione di cominciare quasi due anni fa, affidandosi a coloro che lui conosceva meglio: i cosìdetti “organizzatori di comunità”, un lavoro da lui fatto nelle periferie di Chicago. Sono giovani quasi tutti appena laureati che ha mandato in giro per gli Stati e le città e le campagne a lavorare “oltre” il partito, tra la gente, nelle riunioni scolastiche, in quelle sportive, nella associazioni di volontariato. La sua teoria della “politica dal basso” e non imposta “dall’alto” adesso viene studiata dai politologi di mezzo mondo che stanno analizzando le ragioni di un successo così strepitoso. E’ la politica dell’ascolto, che ha consentito ad Obama non solo di conoscere dal profondo i bisogni e i sogni degli americani, ma anche di preparare i progetti per realizzarli. E che gli ha permesso di costruire quella rete di volontari e di finanziatori, piccoli e grandissimi, che hanno consentito l’organizzazione di una campagna elettorale vincente.
La nostra società civile è certamente stanca e delusa.

Incapace di sognare. Inadeguata a progettare. Bravissima a criticare e lamentarsi. Invecchiata. I giovani si mobilitano per la loro scuola o per dichiarare guerra alla mafia, che sono grandi obiettivi, ma non per la “politica” dei partiti.
Per la prima volta nella mia vita, mi sono chiesta mentre bussavo alla porta dei cittadini di Chester, Pennsylvania chiedendo loro di andare a votare, se avrei ancora la voglia e l’energia di farlo per una campagna elettorale italiana. Per la prima volta nella mia vita credo di essermi detta di no, perché c’è troppo, troppo da far muovere in Italia. Ma il dubbio di sbagliarmi non mi dà pace.
Un esempio, la lettera ai volontari di New York per la campagna di Obama

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