Le analisi che si sono succedute nella fretta di dare un significato plausibile al grande successo di Donald Trump mettono in discussione alcuni temi classici: il rurale conservatore contro la metropoli progressista; i perdenti della globalizzazione; il ceto medio impoverito; le minoranze etniche che si sono spostate in modo più netto verso il candidato repubblicano, in particolare gli ispanici tradizionalmente vicini ai conservatori. Tutto appare perfetto in questo puzzle di ragionamenti, i vari pezzi della storia si sistemano dentro a una narrazione efficace. Ma è davvero così?
Tutti i grandi network americani e le grandi testate si sono mosse con tabelle di flussi, grafici e commenti importanti; tuttavia, parte di queste certezze traslate in novità non appaiono così. Prendiamo due dei punti essenziali: il voto rurale versus quello urbano, e i cosiddetti losers nella corsa alle trasformazioni economiche. Sul primo punto, c’è chi sostiene che la differenza tra centri rurali, piccole città e aree metropolitane è stato un fattore a livello di contea non determinante. In realtà, non è del tutto vero. Nel 2016, prima vittoria trumpiana, e nelle elezioni del 2020 il voto rurale, composto in maggioranza da bianchi poco istruiti, è stato massiccio e lo è stato ancora di più in queste ultime elezioni. In un commento su NBC, Nicholas Jacobs, college del Colby College nel Maine, si è espresso senza mezzi termini: «Il marchio del Partito Democratico è diventato, in poche parole, tossico nell’America rurale».
Interessanti, a proposito, le osservazioni svolte da The Guardian a partire dai dati sui flussi in cui si evidenzia come «in passato, le contee rurali hanno votato per i repubblicani, mentre le contee urbane sono andate ai democratici. Questa tendenza è stata ampiamente replicata nel 2024, con un ampio successo di Trump nelle aree rurali». Indubbiamente, la sconfitta dei Democratici è passata anche per uno spostamento dei voti suburbani ai Repubblicani, soprattutto nei centri di medie dimensioni. Questo significa, da un lato che è del tutto errato sostenere che non vi siano differenze tra contesti rurali e urbani, dall’altro che effettivamente una quota di elettori urbanizzata che vive nella famosa suburbia americana, abitata prevalentemente dai ceti medi bianchi, ha votato per Trump. Quest’ultima considerazione può essere parzialmente giustificata dall’effetto socioeconomico di paura di un declassamento sociale e dell’impatto dell’inflazione.
Nondimeno, sarebbe utile associare a questa importante dimensione la variabile culturale, ovvero il profondo malessere diretto alla cultura woke e al riferimento unico ai diritti civili, come giustamente alcuni opinionisti hanno sottolineato. Sulle basi di questo intreccio – tra presunte minacce sullo status sociale vissute dalla componente bianca dell’elettorato e la promozione delle politiche identitarie e civili da tempo sotto accusa – si è creata la miscela per confermare il voto rurale e per aprire una breccia decisiva nelle città. Sul secondo punto, i poveri bianchi impoveriti, arrabbiati, con basso livello educativo raffigurano il totem a cui si aggrappano i commentatori. Anche in questo caso vi è una parte di verità, tuttavia bisogna fare attenzione a stabilire questa associazione. Come numerosi studi sul successo dell’estrema destra nel continente europeo hanno dimostrato, la storiella del povero perdente emarginato non è esclusiva: fette importanti dei gruppi sociali vincenti nella “guerra economica” hanno votato in maggioranza in tale direzione.
Seppure non siano ancora disponibili i dati elettorali americani sul voto di classe, è indubbio che vi sia stato un vasto sostegno delle élite tecnocratiche culturalmente avanzate a Trump, rappresentate da Elon Musk. Quindi perché Kamala Harris non ha vinto? Perché un soggetto altamente impresentabile è tornato con uno straordinario successo? Evidentemente la contingenza dei fattori fin qui analizzati e, da non sottovalutare, la lunga pantomima della ritardata candidatura democratica hanno favorito ciò che si potrebbe definire “un cambiamento nel passato”, ovvero un cambio del consenso politico che si rifà a una proposta già vista e rivista. Non è certo un caso che gli stessi argomenti e il rifarsi agli stessi soggetti sono stati utilizzati nel 2016. Forse sarebbe ora di andare oltre e capire in dettaglio la sconfitta, e soprattutto il ritirarsi progressivo della democrazia così come l’abbiamo conosciuta e l’avvento di qualcosa di ancora indefinito che di democratico ha solo una triste faccia.
Un dato conferma questa situazione: secondo l’exit poll presentato da ABC nel corso della votazione, il 35% degli elettori a livello nazionale ha valutato lo “stato della democrazia” come il fattore più importante per il loro voto. Il problema è che l’81% di questi ha votato per Harris e solo il 17% per Trump.