Nella congerie di fattori che hanno condotto alla vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi, colpisce la straordinaria forza esercitata dal desiderio della maggioranza degli elettori di delegare la soluzione delle proprie difficoltà ad un uomo onnipossente.
Ciò appare vero senza distinzioni significative tra uomini e donne: il fascino del “commander in chief” è stato talmente decisivo da aver oscurato i dati relativi alle caratteristiche reali del candidato, ai suoi trascorsi imprenditoriali e politici, alla inaccettabilità delle sue dichiarazioni razziste e misogine.
Come lo stesso Trump ha dichiarato, lui non è un politico, è una star! Effettivamente, nel consenso che ha raccolto sembrano aver contato molto di più che valutazioni realistiche sulle sue proposte – dai dazi alla espulsione degli immigrati illegali – le potenti aspettative emotive sapientemente coltivate. I cartelli con scritto “He will fix it”, agitati da folle plaudenti ai comizi di Trump, esprimono una delega totalizzante, che non necessita di specificazioni, in cui “it” significa tutto e niente.
Una delega che proviene da fasce della popolazione molto diverse tra loro: uomini e donne bianchi senza titolo di studio, uomini bianchi laureati, ispanici, asiatici, uomini neri, giovani: tutti accomunati dal desiderio di rispecchiarsi in un uomo ricco, energico, potente – astutamente affiancato da un eroe della tecnologia quale Musk – e di riconoscere la propria rabbia nella rabbia espressa da Trump contro i “nemici dell’America”.
Cosa ci dice questa ansia di delegare a figure messianiche, tale da travolgere qualsiasi valutazione ragionevole circa la loro credibilità? Essa esprime in realtà il profondo senso di impotenza dell’elettorato rispetto al confronto con le difficoltà della loro vita, rispetto all’interpretazione dei vorticosi cambiamenti intervenuti nel contesto sociale, rispetto alla percezione della propria vulnerabilità. Esprime il desiderio di ritrarsi e la sfiducia nella propria capacità di agire per migliorare le cose. Nel voto per Trump si manifesta così una colorazione emotiva di subordinazione, in cui le proprie difficoltà vengono ingannevolmente superate mediante il rispecchiamento e la delega.
L’impronta autoritaria della nuova presidenza è dunque insita nelle motivazioni del voto.