Questo articolo di Daniela Padoan, presidente di Libertà e Giustizia, è stato pubblicato su La Stampa del 3 giugno.
Sarebbe sbagliato considerare attaccamento ideologico a un passato sclerotico l’insistenza con cui la destra di governo continua a parlare di patria, patrioti e nazione. Giorno dopo giorno, si insinuano nella nostra quotidianità parole che contengono il precipizio della storia del Novecento, scritte in maiuscolo, pronunciate con enfasi, pronte a invadere uno spazio mediatico ormai quasi completamente saturato dal potere, facendosi senso comune. La parabola è iniziata il 25 ottobre dello scorso anno, con il discorso alla Camera tenuto dalla presidente del Consiglio in occasione della fiducia al governo, dove la parola “nazione” sovrastava di gran lunga le parole “repubblica”, “comunità”, “paese” – mentre la parola “patria” era usata una sola volta, per quanto significativamente rivolta alle Forze armate – e si è conclusa con la fluviale esternazione del videomessaggio consegnato al convegno “Nazione e Patria. Idee ritrovate”, organizzato lo scorso 30 maggio da Marcello Pera nella Biblioteca del Senato. In quell’occasione, Giorgia Meloni ha parlato davanti alla telecamera – in una modalità comunicativa usata sempre più spesso, che, togliendo il contraddittorio e la semplice presenza fisica degli interlocutori diventa di volta in volta dichiarazione apodittica o recita – di «idee uscite da una marginalità nella quale per decenni erano state relegate, perché considerate, a torto, idee retrograde, reazionarie, obsolete se non addirittura pericolose». Per poi fare un’affermazione sconcertante: «Ho sempre pensato che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini e dei popoli e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia».
Lo Stato-nazione, come ha osservato Giorgio Agamben, fa della «natività della nascita» il «fondamento della propria sovranità. […] La finzione qui implicita è che la “nascita” diventi immediatamente “nazione”, in modo che non possa esserci alcuno scarto tra i due momenti».
D’altra parte, la nascita in un luogo, una lingua, una famiglia, un sesso non è “naturale”, è un dato: noi apparteniamo sempre a un gruppo per nascita. Quella che chiamiamo natura è spesso il risultato di un lavoro di educazione o, per meglio dire, di un addestramento che la nostra cultura ha impresso nei corpi, nelle posture, prima ancora che nelle menti, convincendoci della naturalità dell’appartenenza, così come della naturalità della violenza, della sopraffazione, delle gerarchie. Alla natura è stato storicamente assegnato il compito di legittimare l’istituzione del potere, che inizia con il «naturale» dominio dell’uomo sulla donna, del padre sui figli, del forte sul debole, del padrone sullo schiavo.
«A nessuno può saltare in mente che la natura, che ci ha fatto tutti uguali, abbia reso qualcuno servo»scriveva nel XVI secolo Étienne de la Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria, eppure la nostra organizzazione sociale si è fondata sullo «schiavo per natura» ipostatizzato da Aristotele nella Politica, e sulle diverse attribuzioni di bestialità che hanno legittimato lo sfruttamento di forme umane apparentate all’animale, dal “negro da cotone” al “sottouomo” dei lager nazisti.
L’apparente ovvietà dell’appartenenza naturale di «ciò che è dato e non potrebbe essere fatto», cui Hannah Arendt dichiara gratitudine a cominciare dalla madrelingua, distinguendo physis (mondo naturale) da nomos (legge, tradizione, cultura), non può comprendere concetti come patria e nazione, resi trascendentali laddove si tratta di costruzioni storiche. La patria non è un’entità astratta, non si dà al di fuori della storia e della politica: la patria mazziniana non è la patria hitleriana. L’esito delle patrie metafisiche, delle nazioni di “sangue e suolo” ha segnato la distruzione europea.
Unendo patria, nazione e famiglia nel novero delle “società naturali”, la dichiarazione della presidente del Consiglio rischia di rimandare, per quanto involontariamente, al principio di appartenenza biologica e di sangue, alla cupa risonanza eugenetica del Blut und Boden coniato dal governo nazista per intendere l’appartenenza per nascita alla nazione tedesca, che ha giustificato politiche di selezione ed eliminazione delle “razze inferiori”, considerate biologicamente impure, pericolose per la salute fisica e l’integrità morale del corpo sociale.
Non si tratta di attribuire alla destra di governo le colpe del passato, ma di avere consapevolezza del peso storico delle parole, di sapere che quando l’identità nazionale si fa frontiera, muro, barriera, produce ancora oggi, anche in Europa, guerre, pulizie etniche, cimiteri marini, luoghi di confinamento e masse crescenti di profughi, rifugiati, “scartati”: “la schiuma della terra”, nelle parole, ancora, di Hannah Arendt.
Come ha mirabilmente affermato il presidente Mattarella parlando della visione “civile” del Manzoni, è la persona, «e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti».
Ed è proprio in polemica con il culto dello Stato-nazione, che l’articolo 9 della Costituzione parla di una nazione della cultura, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, e non di una nazione della nascita. Non basterà il pur necessario ddl inteso ad abolire la parola “razza” dagli atti e dai documenti della Pubblica amministrazione, se questa verrà sostituita dalla parola “nazionalità” intesa come nascita e “società naturale”. Occorrerà invece difendere le parole di umanità, smascherare le parole che separano e feriscono, costruire la patria indicata da Piero Calamandrei, membro dell’Assemblea costituente, quando indicò, nell’articolo 2, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, e nell’articolo 11 il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, per ritrovare «la patria italiana in mezzo alle altre patrie». Ma in un’Europa segnata dall’ascesa dell’estrema destra e dal progressivo dissolversi di un progetto politico capace di tenere a freno gli egoismi degli Stati, in cui si annuncia l’avvento di un’Europa delle Patrie, è difficile non avvertire nell’utilizzo reiterato delle “parole ritrovate” una consonanza tematica e ideale con le destre populiste, xenofobe e sovraniste che si sono date appuntamento per le prossime elezioni europee, a cominciare dal richiamo di Marine Le Pen all’alleanza tra chi difende la nazione e i «mondialisti che sperano nella cancellazione delle nazioni a beneficio di strutture sovranazionali come l’Unione europea».