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C’è una domanda che non riesco a togliermi dalla testa e a cui conviene rispondere: perché la probabile vittoria della Meloni fa meno paura del pericolo che ha rappresentato Salvini? Tutti ricordiamo infatti quanto la minaccia di un governo Salvini abbia condizionato gli ultimi anni. So perfettamente che ci sono motivi tattici che spingono alla normalizzazione in atto. È un po’ come l’elaborazione di un trauma: non serve ossessionarsi. Per uscirne vivi bisogna trovare un atteggiamento proattivo. Può anche darsi che questa normalizzazione non sia altro che un’elaborazione anticipata del trauma che verrà, ma non mi accontento. Ci sono secondo me delle ragioni politicamente più profonde.
Tanti aspetti propugnati dalla Meloni sono inquietanti non solo per un estremista di sinistra come me (che poi in effetti sarei un mite socialista liberale, ma da quando quest’etichetta viene rivendicata da Calenda mi devo camuffare), ma anche per le élite che hanno nostalgia dell’“agenda grandi intese” (smettiamola di dare tutta la colpa a Draghi), a partire dalla regressione sui diritti civili. Ma la tesi che vorrei condividere qui è che su alcune “cose essenziali” la Meloni è tutto sommato in linea con il progetto di società dominante: è letteralmente conservatrice.
Definiamo innanzitutto ciò che intendo con “cose essenziali”. Anche i diritti civili lo sono, ma la loro affermazione non rappresenta una resistenza rispetto all’ordine che riscrive da qualche decennio la struttura simbolica delle nostre vite. Rispetto ad essa sono due le questioni che sono contemporaneamente essenziali e dialettiche (cioè che finiscono per contraddire quell’ordine): la questione sociale e quella democratica.
Limitiamoci ad analizzare la sfera sociale. Il programma economico della Meloni ha un solo vero elemento di contraddizione: la critica nei confronti dell’atlantismo (che ovviamente ha a che fare con l’economia della guerra, non con la guerra e basta). Il riposizionamento in atto va in questa direzione: la sua propaganda non è tesa a conquistare gli elettori ma a rassicurare le élite che non verrà messa in atto alcuna contraddizione essenziale. Per il resto il programma della Meloni non è che una radicalizzazione di ricette già sperimentate: politiche fiscali che redistribuiscono al contrario, privatizzazioni del Welfare (i nomi di Ricolfi e Moratti come papabili all’istruzione e alla Sanità appaiono delle inquietanti garanzie), aiuti alle imprese sperando che poi lascino qualche goccia ai lavoratori, politiche del lavoro che fissino il ricatto come punto di partenza di ogni contrattazione, alleanze d’interesse con aree potenti (e prepotenti) del terzo settore complici della dismissione dei diritti.
Con questo non sto affatto dicendo che “sono tutti uguali”. Piuttosto che le politiche sociali che verranno estremizzano il paradigma egemonico, non lo contraddicono. E forse per questo si possono normalizzare. Ora, se ciò è vero, è evidente che il consenso di Meloni sarà del tutto effimero. Per un motivo semplicissimo: l’ha ottenuto grazie alla scelta puramente tattica di presentarsi come opposizione al governo Draghi, mentre da un punto di vista economico e sociale non lo è affatto. Le persone votano Meloni perché si aspettano da lei che corregga le politiche economiche di Draghi, non che le radicalizzi. Il fatto che Draghi garantisca Giorgia non è un’astuta mossa tattica, è nell’ordine culturale delle cose.
Resta da capire però perché questo “profilo conservatore” apparterrebbe alla Meloni, ma non a Salvini. Per provare a rispondere mi permetto un giro lungo, facendo una modesta proposta per la sinistra che viene. È ora di smettere di parlare di “questione sociale”. Le diseguaglianze, l’impoverimento diffuso, la questione salariale ed energetica, l’inflazione non sono elementi che compongono una semplice questione sociale. Dietro questa nozione agisce una censura ideologica che non permette alla sinistra di essere tale. Se c’è semplicemente una questione, allora tutto si risolve con qualcuno che pone delle domande dal fronte della sua disperazione e qualche altro che si sente in potere di rispondere. È un modo paternalista di fare analisi sociale, che censura la genealogia concreta dei processi.
L’emergenza sociale dentro cui ci troviamo non è frutto di disgrazie o di congiunture sistemiche, ma di scelte politiche che hanno privilegiato gli interessi di alcune classi sociali contro altre. Se c’è una questione, è perché innanzitutto c’è un conflitto sociale. La scomparsa della sinistra sta tutta qui. Anche quando professa – con le migliori intenzioni – di essere contro le diseguaglianze, in realtà si guarda bene dal mettere al centro il fatto che vi siano interessi materiali di classi sociali che dovrebbero essere fatti agire contro gli interessi di qualche altro (ed è appena il caso di ricordare che questa natura conflittuale della società dona senso alla democrazia, che è il modo attraverso cui ci concediamo il tempo di non trasformare i conflitti in violenza).
Per finire, perché questa modesta proposta per la sinistra avrebbe a che fare con Salvini? Perché quest’ultimo ha, rispetto al bon ton della Meloni, una nota estetica differente: egli non nasconde il conflitto, esibisce gli interessi del Nord, delle imprese, degli evasori con la sua faccia da Papeete. Come Meloni, ma mentre lei promette di garantire gli stessi interessi nascondendo il conflitto sociale, Salvini ha un tratto osceno: non vede l’ora di esibire il suo stare da una parte del conflitto (un po’ come Renzi e Calenda). Quanto ai conflitti sociali, Salvini è un esibizionista, mentre Meloni è una voyeur. L’esibizionismo è l’unica oscenità non consentita a coloro che ci governeranno. Sinceramente, non m’importa della fine di Salvini, ma della rinascita della sinistra. Senza scadere nell’esibizionismo, un po’ più di oscenità non ci farebbe poi così male: non abbiamo solo una questione da risolvere, abbiamo un conflitto in cui scegliere da che parte stare.