Perché Draghi non può andare al Quirinale

27 Gennaio 2022

Francesco Pallante Costituzionalista

La politica contemporanea è un fenomeno altamente instabile, da maneggiare con cura. Troppe volte, negli ultimi anni, abbiamo avuto la sensazione di trovarci di fronte a novità destinate a durare, salvo vederle poi fallire nel giro di qualche mese. Ricordo ancora un anziano professore universitario rimproverarmi di non aver capito che compito dei costituzionalisti era consigliare, indirizzare, finanche guidare Renzi, ma non certo contrastarlo, dal momento che, in ogni caso, la sua stella politica era destinata a durare vent’anni – «finito il ventennio berlusconiano, è ora il momento del ventennio renziano», le sue testuali parole. Monti era appena stato archiviato, dopo la lunga fase di celebrazione del suo Loden; Salvini avrebbe percorso analoga parabola di lì a pochi anni.
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Ora, con Draghi, ci risiamo. Solo che questa volta il rischio sembra essere, realmente, quello di trovarsi innanzi a uno spartiacque. Che «Super Mario» (Antonio Decaro, presidente dei sindaci italiani) possa segnare un prima e un dopo. Che l’«uomo della necessità» (Carlo Bonomi, presidente della Confindustria) o, meglio ancora, l’«uomo della Provvidenza» (cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani) possa portare a definitivo compimento la torsione verticista che, da quasi trent’anni, sta progressivamente trasformando il nostro sistema istituzionale.
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I comuni e le regioni insegnano. Nel modello originario, entrambi i livelli territoriali erano retti da una forma di governo d’impianto parlamentare. I cittadini eleggevano gli organi rappresentativi – i consigli – e questi l’esecutivo, composto dal sindaco o dal presidente della regione e dalla giunta. Se lo ritenevano politicamente opportuno, i consiglieri potevano sfiduciare e sostituire gli esecutivi nel corso della consiliatura, senza che ciò fosse vissuto come un dramma irreparabile. Quando nel 1993 fu introdotta l’elezione diretta del sindaco e nel 1995 quella del presidente della regione tutto cambiò.
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Al punto che oggi l’intero potere comunale e regionale è nelle mani dei due organi di vertice. Non solo le opposizioni non contano più niente, ma nemmeno le maggioranze, sempre sotto schiaffo dello scioglimento anticipato del consiglio. Così come nulla realmente contano gli assessori, che il capo della giunta nomina e revoca a piacere. Il vertice dell’esecutivo è davvero il sovrano assoluto, in un contesto che di presidenzialista non ha nulla: se, infatti, nei sistemi presidenziali esecutivo e rappresentativo sono tra di loro rigorosamente separati, nei comuni e nelle regioni il rappresentativo è totalmente dipendente dal capo dell’esecutivo. Iper-presidenzialismo sembra essere la definizione più corretta.
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A livello statale, è da tempo che si tenta un’analoga operazione: dapprima grazie alla modifica in senso maggioritario della legge elettorale – con la conseguenza, oculatamente perseguita, di spostare la titolarità del potere politico dai partiti ai loro leader –, poi in forza di una modifica costituzionale che solo l’insipiente arroganza politica dei suoi ripetuti promotori (D’Alema nel 1997, Berlusconi nel 2006, Renzi nel 2016), unita all’ostinato attaccamento alla Costituzione di una parte del corpo elettorale, ha fortunatamente fatto fallire.
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Nel frattempo, la destrutturazione dei partiti politici, e la loro riduzione a comitati elettorali, se non d’affari, nel pieno controllo di una ristretta cerchia di leader, ha innescato, anche a livello statale, un processo di spostamento della centralità del sistema istituzionale dal rappresentativo all’esecutivo. Sono oramai molti anni che il governo non si limita a governare, ma, grazie a una combinazione di strumenti che hanno alterato nel profondo l’assetto della forma di governo sancita dalla Costituzione (decretazione d’urgenza, deleghe legislative, normativa emergenziale, regolamenti, delegificazione, semplificazione normativa, questione di fiducia, maxi-emendamenti, compressione dei tempi di discussione parlamentare, commissioni deliberanti, monocameralismo alternato di fatto, controllo governativo del calendario dei lavori parlamentari, ecc.), agisce altresì da padrone dell’attività legislativa.
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Da ultimo, con la pandemia, gli stessi equilibri interni al governo sembrano essere mutati a discapito di quel minimo di collegialità, pur interna alle sole forze politiche di maggioranza, che la Costituzione formalmente ancora dispone. E, così, come in un crescendo, dall’utilizzo del regolamento del Presidente del Consiglio dei ministri, anziché del regolamento governativo, come fonte-principe della gestione dell’emergenza sanitaria si è passati alla modifica unilaterale, da parte del Presidente del Consiglio stesso, dei progetti di atti di rango legislativo approvati in sede consiliare, addirittura dopo che il Presidente della Repubblica ne aveva già autorizzato la presentazione al Parlamento. Come se l’art. 95, co. 2, Cost., che sancisce la responsabilità collegiale degli atti del Consiglio dei ministri, fosse stato abrogato.
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È questo il contesto generale in cui si discute del “trasferimento” di Draghi da Palazzo Chigi al Palazzo del Quirinale. Un inedito nell’intera storia repubblicana, che suscita un duplice ordine di preoccupazioni: di carattere procedurale e di carattere sostanziale.
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Dal punto di vista procedurale, l’elezione a Presidente della Repubblica di un Presidente del Consiglio in carica comporta rilevanti difficoltà. Poiché, infatti, per l’art. 84, co. 2, Cost., «l’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica», è necessario che, appena eletto, il neo-inquilino del Colle si dimetta da tutte le cariche che ricopre. Draghi dovrebbe, dunque, immediatamente lasciare la Presidenza del Consiglio. Ma nelle mani di chi? Del Presidente della Repubblica uscente? O di se stesso?
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Inoltre, poiché un Paese non può rimanere nemmeno per un istante senza governo, ecco che subito scatterebbe l’ulteriore regola in base alla quale il Presidente della Repubblica incarica il Presidente del Consiglio dimissionario di rimanere al suo posto per il disbrigo degli affari correnti, nell’attesa che un nuovo governo giuri nelle sue mani (art. 93 Cost.: «il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del presidente della Repubblica»).
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Ma chi sarebbe, in questo scenario, il Presidente della Repubblica? E chi il Presidente del Consiglio?
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Si potrebbe immaginare che Mattarella, anziché dimettersi immediatamente, per cortesia istituzionale nei confronti del successore neoeletto, rimanga in carica e sia lui a nominare il nuovo governo, magari d’intesa con Draghi. Oppure che Draghi nomini un vicepresidente del Consiglio, o faccia riferimento alla normetta sul ministro anziano (art. 8, co. 2, legge n. 400/1988, che peraltro parla di «supplenza» in caso non di dimissioni, ma di «assenza o impedimento temporaneo» del Presidente del Consiglio), affinché le sue dimissioni dal governo non travolgano il governo stesso e gli consentano di ascendere al Quirinale lasciando la gestione degli affari correnti al suo vice (di nome o di fatto che sia).
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Ma è chiaro che entrambe le ipotesi sollevano perplessità non indifferenti: per via della compresenza di due Presidenti della Repubblica, nel primo caso: uno scenario che persino il Vaticano ha escluso con la trovata del «Papa emerito»; per via del doppio ruolo che, sia pure grazie all’interposizione del vicepresidente del Consiglio o del ministro anziano, Draghi si troverebbe a esercitare, nel secondo caso.
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Veniamo così alle preoccupazioni di carattere sostanziale, dal momento che, anche a prescindere dagli auspici dei molti Giorgetti che infestano il panorama politico, è chiaro ciò che il trasloco di Draghi da un Palazzo all’altro di fatto implicherebbe: lo scivolamento, più o meno netto, della forma di governo dal modello parlamentare al modello presidenziale.
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Le due ipotesi sopra evocate dal punto di vista procedurale sono, infatti, entrambe di debolissima solidità costituzionale sostanziale. La Presidenza della Repubblica è una, e non può che essere una, proprio per il ruolo delicatissimo di garante della Costituzione che il Presidente è chiamato a svolgere. Uno dei suoi poteri più rilevanti, in quanto posto all’incrocio tra politica e Costituzione, è proprio la gestione della crisi di governo, durante la quale egli deve essere libero da ogni condizionamento e agire nell’esclusivo interesse dell’ordinamento costituzionale.
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Immaginare che Mattarella rimanga al proprio posto nonostante l’elezione di Draghi e gestisca la crisi del governo Draghi in accordo con Draghi stesso è un evidente strappo al dettato costituzionale, per via della diminuzione del ruolo del Presidente in carica che ciò comporterebbe. D’altro canto, immaginare che ciò avvenga escludendo del tutto il Presidente neoeletto condurrebbe al medesimo risultato, per via della marginalizzazione di quest’ultimo proprio nella fase del passaggio delle consegne e dell’insediamento al Quirinale del nuovo Presidente, che si ritroverebbe escluso dalla prima importantissima questione sorta dopo la sua elezione.
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È bene sempre ricordare che le norme giuridiche valgono a disciplinare gli accadimenti della vita in termini generali e astratti: dunque, anche al di là del caso specifico di Draghi e Mattarella, che potrebbero effettivamente ritrovarsi ad agire in accordo reciproco, senza danneggiarsi vicendevolmente. Ma, cosa potrebbe accadere qualora uno scenario del genere dovesse riproporsi in futuro, con Presidenti tra loro non concordi, bensì ostili? Nel diritto costituzionale può bastare un precedente a fare regola e, se ciò avvenisse, ci ritroveremmo nella condizione di aver collocato una bomba a scoppio ritardato proprio nel cuore stesso del sistema.
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Ancora più inquietante, se possibile, l’ipotesi che sia Draghi in prima persona a gestire la crisi del governo da lui presieduto. La carica eversiva di tale ipotesi emerge con pienezza anche solo a un rapido sguardo delle regole costituzionali sulla Presidenza della Repubblica. Come ricordato, «l’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica» (art. 84, co. 2, Cost.): e non potrebbe essere diversamente, dato che «il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale», come aggiunge l’art. 87, co. 1, Cost. L’«unità nazionale»: vale, a dire un qualcosa che, di per sé, non esiste, ma che – come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, su «la Repubblica» del 10 novembre scorso – è essenziale sia «costruita giorno per giorno, interpretando concretamente il patto che sta alla base del nostro “stare insieme”», in modo da «stare al di sopra non solo delle beghe, delle manovre, delle pressioni e dei ricatti di cui è fatta molto spesso la politica d’ogni giorno, ma anche delle strategie partitiche dei giorni a venire».
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Anche per questo è semplicemente impensabile che di rappresentante dell’unità nazionale possa essercene più d’uno: il che vale a ulteriormente escludere che Mattarella possa rimanere pienamente al suo posto dopo l’elezione di Draghi. Insomma, il Presidente della Repubblica deve necessariamente collocarsi al di fuori dall’agone politico, perché solo così può davvero assolvere al suo compito essenziale: rendere presente quella cosa che non c’è, ma deve necessariamente esserci, che è l’unità nazionale; senza la quale quanto rimane del, pur gravemente sfilacciato, nostro “stare insieme” sarebbe destinato a venir del tutto meno.
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Proprio in questa sua veste di rappresentante dell’unità nazionale, il Capo dello Stato è poi chiamato, dai successivi commi dell’art. 87 Cost., a porsi in rapporto di stimolo e controllo con tutti gli altri organi costituzionali: il Parlamento, il Governo, la Magistratura, il corpo elettorale, la pubblica amministrazione, le forze armate. Ed è evidente che si tratta di funzioni cui egli può far realmente fronte solo in quanto non agisca – nemmeno in apparenza – come un soggetto che interviene prendendo parte o subendo condizionamenti, ma muovendosi nel nome di tutti e sotto il solo condizionamento del dettato costituzionale.
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Esattamente per questo, infine, l’art. 90, co. 1, Cost. sancisce che «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni», fatta eccezione per l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione, e l’art. 89, co.1, Cost. aggiunge che «nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità»; con l’ulteriore precisazione che «gli atti che hanno valore legislativo e gli altri atti indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 89, co. 2, Cost.). Con quale credibilità questo delicatissimo meccanismo, che si basa sull’assoluta terzietà del Presidente della Repubblica ed è incentrato sullo “scarico” di responsabilità politica dal Capo dello Stato all’esecutivo, potrebbe reggere se alla guida dell’esecutivo vi fosse una mera emanazione del … Capo dello Stato?
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È chiaro, insomma, che anche solo l’ipotesi di un Draghi al comando diretto del Quirinale e indiretto di Palazzo Chigi equivarrebbe allo scardinamento della Costituzione vigente.
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Un’ultima considerazione merita di essere presa in esame. Se è, indubbiamente, appropriata la metafora che paragona i poteri della Presidenza della Repubblica a una fisarmonica che si comprime quando tutto funziona correttamente e si estende quando si verificano intoppi o difficoltà, è altrettanto indubbio che le ultime due Presidenze sono state connotate da momenti di estensione davvero inusitata. Una riguarda la fase di “reggenza” gestita da Napolitano durante la crisi del governo Berlusconi IV, che non si è limitata alla nomina del governo Monti – anticipata dalla inusualmente precipitosa nomina di Monti stesso a senatore a vita – ma ha riguardato, ancor prima, il pieno coinvolgimento dell’Italia nella guerra contro la Libia, una scelta autolesionistica che ha contribuito in modo decisivo a sancire quella che Alberto Negri ha ripetutamente definito «la più grave sconfitta subita dall’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale».
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Un’altra riguarda il ruolo da protagonista che Mattarella ha ripetutamente voluto giocare nella formazione dei governi che si sono susseguiti nel corso dell’attuale legislatura, prima osteggiando selettivamente la nomina di ministri potenzialmente pericolosi per la tenuta dell’ordinamento costituzionale (si ricordi il veto opposto a Savona, ma non a Salvini nel governo Conte I), poi gestendo opacamente la fine del governo Conte II, in modo da favorire l’ascesa di Draghi alla Presidenza del Consiglio e, in prospettiva, al Quirinale (uno scenario inaudito, in cui il Capo dello Stato in carica crea le condizioni per determinare chi sarà il suo successore). È infatti evidente – lo ha scritto Tomaso Montanari su «Volere la luna» il 3 marzo 2021 – che se il Capo dello Stato avesse fin da subito messo in chiaro che, qualunque cosa fosse successa, mai avrebbe sciolto le Camere, Conte non sarebbe caduto nell’incredibile ingenuità di dimettersi “al buio”, senza prima pretendere una verifica dei numeri in Parlamento.
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Come ha scritto Marco Revelli su «il Manifesto» del 29 dicembre 2021, l’operazione Draghi, predisposta da Renzi e avallata dal Quirinale, rivela oggi pienamente il suo contenuto «avventuristico»: quello di un’operazione che «conteneva già in sé […] i semi del male che ora germoglia. […] Quella soluzione, allora applaudita in forma trasversale, non ha avvicinato la soluzione della crisi italiana. Ha contribuito per molti aspetti a incancrenirla. È probabile che da questo nuovo passaggio ne usciremo peggiori». Se a tanto siamo giunti con le attuali regole sulla Presidenza della Repubblica, a cosa potremmo giungere con un super Capo dello Stato scelto esattamente al fine di attrarre su di sé la centralità dell’intero sistema?
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 www.volerelaluna.it
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Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino.
Tra le sue pubblicazioni: con Gustavo Zagrebelsky, Loro diranno, noi diciamo; Vademecum sulle riforme istituzionali (Laterza 2016); Per scelta o per destino? La Costituzione tra individuo e comunità (Giappichelli editore Torino 2018), Contro la democrazia diretta (Einaudi 2020), Elogio delle tasse (Edizioni Gruppo Abele 2021).

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