Consulta, il dovere del presidente

11 Dicembre 2015

Francesco Pallante Costituzionalista

Superare lo stallo che sta imballando il parlamento sui giudici costituzionali non sembra difficile. Basterebbe abbandonare la logica — escludente — della conta all’ultimo numero e assumere la logica — includente — della ricerca del compromesso. Che questo cambio di atteggiamento non venga dal governo è scontato. Tutta l’esperienza renziana è apertamente connotata dal «muro contro muro». Forte di una maggioranza parlamentare tanto abnorme quanto incostituzionale (per meglio dire: abnorme proprio in quanto incostituzionale), Renzi ha sempre optato per la soluzione muscolare. Il caso più evidente — e drammatico — è quello della revisione costituzionale, imposta a colpi di maggioranza senza mai realmente aver ascoltato le proposte avanzate dalle opposizioni. Risultato: un testo inguardabile, pessimo nel contenuto e illeggibile nella formulazione, che produrrà risultati contrari a quelli auspicati dai suoi stessi promotori (su tutti: la moltiplicazione dei procedimenti legislativi in nome della semplificazione). Diversa dovrebbe essere la prospettiva da cui il presidente della Repubblica guarda all’impasse in cui è precipitato il parlamento. Forte della sua storia, della sua cultura, della sua stessa collocazione istituzionale, Mattarella è nella condizione di rimettere in circolazione l’idea che il confronto parlamentare non possa esaurirsi nel momento della decisione, ma debba far proprio, valorizzandolo opportunamente, lo strumento della discussione. In democrazia, la decisione non può essere un valore in sé: altrimenti è sopraffazione. La decisione assume valore alla luce del percorso che la precede: è la sua capacità di farsi sintesi delle diverse prospettive in conflitto a renderla accettabile, anche agli occhi di chi la subisce. Il presidente della Repubblica è garante dell’unità nazionale, e come tale deve agire: a fronte di una maggioranza parlamentare che crea divisioni sempre più profonde (persino al proprio interno) è necessario che riscopra la funzione unificante della Costituzione, e se ne faccia promotore. A iniziare dalla questione, istituzionalmente delicatissima, della composizione della Consulta. D’altro canto, l’idea stessa di decidere la composizione della Corte costituzionale con l’intento di condizionarne le future sentenze è quanto di più lontano dallo spirito costituzionale ci possa essere. La Consulta è un classico contropotere, uno strumento di riequilibrio che l’epoca iper-maggioritaria, in cui stiamo vivendo, rende ancora più necessario. Per questo, i primi a sottrarsi al gioco perverso del governo dovrebbero essere i costituzionalisti, tanto più se dotati di profili scientifici di altissimo livello, come alcuni dei candidati in gioco. È giunto il momento di prendere di petto il germe decisionista che sempre più sta ammorbando il nostro sistema costituzionale. La democrazia non può ridursi a pratica che si consuma una volta ogni cinque anni, in occasione delle elezioni. La democrazia o è processo continuo o non è. Il rischio che diventi momento plebiscitario, a ratifica di decisioni già assunte da chi ha ricevuto l’investitura a Capo (per usare il lessico fascista rispolverato dall’Italicum), è già attuale. Senza contare, poi, che tra le più illustri vittime del decisionismo vi è — paradossalmente — la stessa capacità di decidere, come chiaramente dimostra l’attuale blocco sull’elezione dei tre giudici costituzionali. Ma, come potrebbe essere diversamente? Come ci si può illudere che una forza sociale minoritaria possa diventare forza politica efficace semplicemente drogandone a dismisura la rappresentanza parlamentare? Altro è introdurre dei correttivi, altro è l’artificialismo più sfrenato in cui siamo precipitati. Occorre riscoprire il realismo della politica. Se un corpo elettorale non esprime una maggioranza, nemmeno tendenziale, bisogna prenderne atto e ricercare un compromesso in parlamento. È così che si fa in tutte le democrazie: dal Regno Unito, alla Germania, alla Francia. Persino negli Stati Uniti, dove pure vige il presidenzialismo. Noi siamo passati da un eccesso all’altro: abbiamo avuto la forma di governo più includente; ora, con la revisione costituzionale e l’Italicum, andiamo verso la più escludente. Nella parabola svalutativa della parola «compromesso» — da sinonimo di «dialogo» a sinonimo di «tradimento»: visione che oggi accomuna tutte le principali forze politiche — può essere letta la distanza che segna l’odierna idea di democrazia dall’idea contenuta nella Costituzione. Sarebbe ora che chi ha la responsabilità delle più alte cariche istituzionali rimetta in moto il pendolo: la vicenda dei giudici costituzionali è un’ottima occasione per sottolineare come, nella logica della Costituzione, decisioni di questo genere non possono che venire da un compromesso tra tutte le principali forze politiche presenti in parlamento.    Il Nuovo Manifesto, 11 dicembre 2015

Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino.
Tra le sue pubblicazioni: con Gustavo Zagrebelsky, Loro diranno, noi diciamo; Vademecum sulle riforme istituzionali (Laterza 2016); Per scelta o per destino? La Costituzione tra individuo e comunità (Giappichelli editore Torino 2018), Contro la democrazia diretta (Einaudi 2020), Elogio delle tasse (Edizioni Gruppo Abele 2021).

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