Ergastolo ostativo/Dopo la sentenza della Corte Costituzionale una proposta per modificare il 4 bis

04 Novembre 2019

  1. L’art. 27 della Costituzione non parla delle funzioni delle pene. Dice però che quali che esse siano, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Essa si può interpretare in vari modi. Ma quello che è prevalso è che si deve trattare di una rieducazione morale: meditando durante la detenzione il prigioniero capirà i suoi errori e delitti, e attraverso la rieducazione sarà indotto a deliberare di non ripeterli, e quindi a riprendere il suo posto nella società. Un corollario di questa interpretazione della “rieducazione” è che non vi può essere piena attuazione dell’ergastolo: sennò come avverrebbe la reintegrazione che è il fine della rieducazione? Un secondo corollario è che l’apparato giudiziario-carcerario deve istituire un sistema di monitoraggio dei comportamenti dei detenuti, per spiare i minimi segni di ravvedimento e curare una sorta di biografia morale che possa concludersi con una sorta di certificato di piena rieducazione.
    Suppongo che questa concezione, alla quale è ispirato tutta la legislazione e la prassi giudiziaria italiana, sia fondata sulla credenza che i delinquenti, assassini, ecc. si siano formati malamente a causa delle disastrate condizioni socio-economiche e ambientali in cui sono cresciuti. Ma questa credenza non è generalmente vera. Molti dei peggiori delinquenti sono di buona, ottima famiglia. In ogni caso, non si può rieducare chi non desidera esserlo, né chi a suo modo educato lo è già, ed ha già agito in modo penalmente rilevante proprio in base alle sue elaborate convinzioni: terroristi, mafiosi, o semplici egotisti che vedono il mondo come un campo per le scorrazzate predatorie del proprio io, stanno dimostrarlo. E’ interessante ricordare che quando fu estradato in Italia alcuni amici del pluriomicida Cesare Battisti affermarono che egli era già educato e rieducato, e quindi poteva essere immediatamente liberato. Ma dopo essersi informati meglio, essi dissero che il loro amico riconosceva di aver assoluto bisogno di una rieducazione e come ogni carcerato rivendicava il suo pieno diritto ad essa.
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  2. E’ stato annunciato che la Corte Costituzionale ha prodotto un’importante sentenza, della cui motivazione è stata anticipata una breve sintesi. Gli ergastolani mafiosi o terroristi non erano sinora ammessi, in base all’art. 4 bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario, alla concessione di benefici penitenziari (permessi premio, lavoro esterno, semilibertà, libertà condizionata) se non avessero deciso di collaborare con la magistratura. Ora, osserva la Corte, ciò che va evitato è “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale”, e, più generalmente, “il ripristino di collegamenti” con essa. Certamente la collaborazione con la giustizia è una prova sufficiente della decisione di non rinnovare tali contatti. Ma, sostiene la Corte, non è necessaria. Lo si deve poter inferire anche diversamente: “Se si possono acquisire elementi tali da escludere” la ripresa dei contatti, il divieto cade.  Da sottolineare il “se” che a molti è sfuggito. Quali sarebbero tali “elementi”? Esistono altre prove, altri indizi dell’atteggiamento mentale del detenuto che nel loro insieme costituiscano una nuova e diversa condizione sufficiente? Qui, dopo la sua coraggiosa affermazione innovativa, la Corte sembra farsi più vaga. Si tratta di una possibilità puramente ipotetica che, per quanto ne sa la Corte, nella realtà potrebbe non occorrere mai. Non ne fornisce un solo esempio. Che questi “elementi” esistano o non esistano, e se ne esistono, che ne esistano a sufficienza, spetta al magistrato di sorveglianza stabilirlo, in base alla relazione del carcere e alle informazioni e pareri di varie autorità (l’apparato inquisitoriale di cui si diceva). Viene posta come condizione necessaria l’adesione a un percorso di riabilitazione, che però non costa nulla, e che già Previti e Berlusconi compirono con ammirevole scioltezza ottenendo degli ottimi certificati di rieducazione.
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  3. Ora finalmente “tocca ai giudici giudicare!” annuncia trionfante Luigi Manconi sulla Repubblica del 24 Ottobre. Ma di solito il giudice giudica applicando la legge, ossia, i criteri suggeritigli dalla legge: che qui mancano! Osserva Hans Kelsen in Il problema della giustizia pp. 52-53 che di solito “ci si rifiuta di vincolare gli organi che applicano il diritto con norme generali… e di affidare ogni cosa alla loro discrezionalità, affinché possano trattare ogni caso concreto conformemente alle sue peculiarità. Soltanto quando ogni caso particolare è trattato conformemente alle sue particolarità, il trattamento può dirsi giusto.” E continua “E’ questo il principio di giustizia che sta alla base della politica della libera ricerca del diritto e che già Platone, nel suo Stato ideale, applica all’attività di giudice di questo Stato, che in tal modo si conforma all’ideale della perfetta elasticità del diritto, contrapposta a quella sua rigidità che è invece la conseguenza di norme generali, vincolanti gli organi che applicano il diritto.” Un giudice onnisciente non ha bisogno di applicare alcuna legge. Le conseguenze della “perfetta elasticità del diritto”, che nella realtà storica troviamo nel Medioevo, sono ben note: totale arbitrarietà, mancanza di certezza. La giurisdizione trasformata nel gioco del lotto. Va anche notato che mentre nell’ipotesi di Kelsen la delega totale avviene per il rifiuto di norme generali, ritenute in linea di principio inadatte a misurarsi con la grande varietà delle situazioni, nel nostro caso la Corte delega al magistrato di sorveglianza la ricerca di quei criteri sostitutivi della collaborazione di cui essa stessa ha ipotizzato l’esistenza, ma che non ha saputo o voluto individuare.
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  4. A molti magistrati (Giancarlo Caselli nel Corriere del 25 Ottobre, Antonio Ingroia nel Fatto del 26, e altri) la sentenza della Corte Costituzionale non è piaciuta, ma nessuno di loro, che io sappia, ha lamentato la stupefacente regressività del ricorso alla delega assoluta (l’eccezione è qui costituita come vedremo dal dott. Gratteri.) Delega che inoltre espone la vita dei poveri magistrati che ne sono investiti a enormi rischi: come se non ne fossero già stati ammazzati abbastanza! Caselli, Ingroia, e altri hanno invece sottolineato che, per la natura non dei singoli uomini, ma dell’organizzazione mafiosa, l’appartenenza alla Mafia è per sempre. Se ne esce o da morti, o da collaboratori di giustizia. L’appartenenza alla Mafia non troncata con la collaborazione segnerebbe un limite alla rieducabilità. La C.C. non è d’accordo, evidentemente, e si può simpatizzare con il suo sussulto in difesa della revocabilità della propria carriera criminale. Ma non indica alcun modo alternativo di compiere il troncamento. Resta, io temo, solo la lettura dell’animo dell’ergastolano mafioso: affidata a un soggetto che nulla qualifica per questo difficile, forse impossibile incarico.  Il ruolo del magistrato non è affatto, come invece sostengono Luigi Manconi e l’avvocato Vittorio Manes (nel Corriere del 24 Ottobre), “valorizzato” ma avvilito da questa micidiale delega che meglio si potrebbe affidare a una chiromante.
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  5. Tuttavia questa sentenza, moralmente progressista ma giuridicamente regressiva, esiste ed è irrevocabile. La legislazione penale dovrà tenerne conto. Va notato che oggi 31/X/19 nel Fatto esce un appello per limitare gli enormi danni potenziali di questa sentenza: “Mi aspetto e voglio un legislatore che riduca la fisarmonica del potere discrezionale del giudice”, ha commentato il Procuratore Gratteri, ben consapevole che la fisarmonica è stata aperta a 360°. Così, Peter Gomez, Marco Travaglio, e molti altri hanno chiesto “una legge che impedisca ai capimafia e altri responsabili di stragi di truffare lo Stato,  i magistrati e i cittadini onesti ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli,” ma soprattutto, di approfittarne per riprendere le loro attività, direi io.
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  6. Come fare? A mio avviso conviene restare aderenti all’impianto ipotetico adottato dalla sentenza, conservandone pienamente lo spirito. Il comma 1 dell’art 4 bis andrebbe così integrato: “I detenuti finora esclusi dai benefici carcerari a causa della loro mancata dissociazione dalle bande criminali di appartenenza possono farne richiesta allegando la documentazione degli atti da loro compiuti dai quali si possa inferire la cessazione definitiva dei loro rapporti con esse.” Naturalmente queste domande dovrebbero essere esaminate da una commissione di almeno 5 pers+one, che non comprendano il magistrato di sorveglianza.
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Pisa, novembre 2019

* Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su il Fatto Quotidiano del 2 novembre.

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