I dati di Palazzo Chigi/Quel dossier esplosivo che smonta l’autonomia

17 Luglio 2019

No, non sembra proprio che il problema sia liquidabile come semplice «discussione a livello di burocrati ministeriali che la riforma non la vorrebbero», come è stato detto l’altra sera a caldo. Stiamo parlando delle richieste di autonomia regionale differenziata (lo “spacca-Italia” come opportunamente definito da questo giornale). E delle questioni che esse sollevano: di funzionamento della democrazia parlamentare; di organizzazione giuridica e funzionale dei poteri pubblici; di grandi flussi di spesa pubblica.

Il tema solleva interrogativi preoccupanti sotto il profilo del chi e del come prende le decisioni in Italia. Abbiamo appreso dall’ “Appunto del Dipartimento per gli affari giuridici” della Presidenza del Consiglio (reso noto ieri da questo giornale), che esistono dal 16 maggio nuovi schemi di intesa fra il governo e le tre regioni interessate: Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna.

Ma questi schemi sono segreti per l’ampia parte inclusa nel Titolo II, che dettaglia i nuovi poteri. Non sono noti né ai cittadini italiani né agli stessi parlamentari della Commissione Bicamerale sul Federalismo Fiscale che stanno svolgendo un’utile indagine preliminare conoscitiva.

Ma se quella che viene definita “l’autonomia” è davvero la medicina per lo sviluppo del Paese, e non porterà che benefici a tutti i cittadini, perché il Governo o le tre Regioni non li rendono noti? Perché non spiegarlo concretamente, dettagliatamente agli italiani, che in stragrande maggioranza ancora non ne sanno nulla? Addirittura, abbiamo appreso, la Regione Lombardia richiede che il processo di approvazione parlamentare preveda la non emendabilità del testo. Testi segreti, approvazione rapida. Ma non può essere così: come già argomentato da moltissimi giuristi e politici, secondo il Dipartimento «appare necessario (…) garantire il ruolo del Parlamento (…) la cui funzione legislativa risulterebbe direttamente incisa dalle scelte operate nell’ambito delle Intese».

Ma perché invece è così importante che il Parlamento abbia tempo e modo di «vedere le carte» e di decidere come meglio crede, in rappresentanza di tutti gli italiani? Perché il progetto tocca tutte le grandi politiche si fanno nel nostro Paese, e le ridisegna; con conseguenze rilevanti per i cittadini delle tre Regioni e di tutti gli altri. Dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture, all’energia, all’ambiente.
La Lombardia ha chiesto 131 nuove competenze legislative e amministrative. Vogliamo discuterne? E’ giusto concederle? In base a quali principi, quali valutazioni di efficacia, efficienza, equità? Le Regioni dovrebbero innanzitutto dimostrare che vi sono – nel loro caso e non in altri – «interessi peculiari da soddisfare».

 Ma poi, nota il Dipartimento, «una così ampia estensione dell’autonomia è suscettibile di determinare, di fatto, la creazioni di nuove regioni a statuto speciale». In modo indiretto, senza modificare la Costituzione. E ancora, se «tutte le Regioni di diritto comune avanzano richieste di analogo contenuto (…) il riparto di competenze di cui all’articolo 117 finirebbe per essere sostanzialmente alterato». Cioè, ancora una volta, si inciderebbe indirettamente sulla Costituzione (articolo 117) cambiando gli equilibri fra governo nazionale e governi regionali. Insomma, il timore è quello di una modifica surrettizia della Costituzione: materia da grande e attentissimo dibattito parlamentare.

Vi sono poi gli aspetti finanziari. Le bozze di Intesa sono scritte per dare ogni vantaggio alle tre regioni richiedenti, mettendo i costi a carico delle altre, e dei loro cittadini. Sono diversi i punti dei testi del 16 febbraio (il Titolo I delle Intese, che è sul sito del Dipartimento affari regionali, e che sembrerebbe confermato) che possono determinare questo esito. Più di uno studioso lo ha messo in luce con chiarezza; su queste colonne sono stati illustrati e commentati. Il testo è tanto complesso nella sua formulazione letterale quanto chiaro nei propri obiettivi: determinare risorse maggiori per le tre Regioni, metterle al riparo da manovre d’emergenza di finanza pubblica, a spese delle altre. La conclusione lapidaria del Dipartimento è che ciò è «suscettibile di determinare una violazione indiretta degli articoli 5, 81, 116 e 119 della Costituzione».

Concludendo. Altro che burocrati; non sono certo piccole osservazioni tecnico-amministrative. Si tratta di grandi questioni di funzionamento dei processi democratici; di organizzazione e fruizione per tutti gli Italiani dei grandi servizi pubblici; di criteri di finanziamento e di riallocazione delle scarse risorse di cui il nostro paese dispone. Il rischio, sempre presente, è quello di una secessione dei ricchi.

Cioè a dire, la formazione, nelle aree più ricche del paese, di regioni che somigliano molto ad un vero e proprio stato e che godono di poteri straordinariamente vasti e di un finanziamento maggiore dei servizi per i propri cittadini. Che rimangono in Italia per quanto conviene: come per il debito pubblico, che rimarrebbe a carico di tutti. E, di converso, la definizione residuale di un’Italia minore, con diritti di cittadinanza assai inferiori.

Una prospettiva pericolosa, ma possibile. Sulla quale sarebbe bene che finalmente si facessero sentire tutti quei protagonisti della politica, dal Pd a Forza Italia, finora asserragliati in un silenzio sempre più insostenibile. In fin dei conti si vuole cambiare radicalmente l’Italia: non sarebbe il caso di discuterne?

Il messaggero, 27 giugno 2019 

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