Poche voci si sono sinora levate a rompere il silenzio che sta accompagnando la realizzazione del regionalismo differenziato. Quella dell’economista Gianfranco Viesti – autore del libro, distribuito gratuitamente on-line dall’editore Laterza, intitolato Verso la secessione dei ricchi? – merita di essere ascoltata attentamente.
Il libro si concentra sulle iniziative poste in essere dall’Emilia-Romagna, a partire dalla risoluzione consiliare del 3 ottobre 2017, e dal Veneto e dalla Lombardia, a partire dai referendumregionali consultivi del 22 ottobre 2017. A queste si stanno aggiungendo, progressivamente, quasi tutte le altre regioni, per il momento con l’eccezione di Abruzzo e Molise. Tali iniziative si inseriscono nel solco tracciato dall’art. 116, comma 3, Costituzione, così come modificato con la cosiddetta “riforma del Titolo V” voluta dall’Ulivo nel 2001.
Ai sensi di tale disposizione costituzionale, su richiesta formulata dalla regione interessata, il Parlamento approva, a maggioranza assoluta, una legge che disciplina le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» da riconoscersi alla regione, nei limiti di determinate materie, sulla base di una previa intesa raggiunta tra lo Stato e la regione stessa.
La Costituzione non specifica i dettagli della procedura, rinviando a un successivo intervento legislativo la definizione della disciplina di attuazione. In maniera del tutto inusuale, è stato invece il Governo, in accordo con le regioni che per prime hanno richiesto di avviare la procedura, a procedere in tal senso, producendo un atto normativo sinora sconosciuto al nostro ordinamento: la pre-intesa, vale a dire l’accordo raggiunto tra il Governo Gentiloni e le giunte regionali interessate il 28 febbraio 2018. Le peculiarità procedurali previste non sono di poco conto: in primo luogo, la rimessione della negoziazione dell’intesa a una Commissione paritetica Stato-Regione; in secondo luogo, l’inemendabilità dell’intesa così raggiunta dal Parlamento, che dovrà quindi limitarsi ad approvarla o respingerla; in terzo luogo, la durata decennale dell’intesa e la sua rinegoziabilità, salvo accordo tra lo Stato e la regione, solo al termine di tale periodo. Di fatto, una volta approvata l’intesa da parte del Parlamento, per dieci anni sarà impossibile tornare indietro senza il consenso della regione destinataria delle nuove competenze.
Le osservazioni di Viesti si concentrano sullo scopo essenziale delle iniziative messe in atto da Lombardia e Veneto, vale a dire quello di «ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi che vengono trattenute, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo Stato a loro favore» (p. 24). Sul punto, il libro avanza due rilievi, di carattere l’uno concreto, l’altro concettuale.
Dal punto di vista concreto, attribuire maggiori risorse a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna significa – essendo il complesso delle risorse nazionali disponibili dato – ridurre i finanziamenti alle altre regioni, a prescindere da ogni considerazione circa il divario che già separa, a loro favore, tali territori dal resto d’Italia. Si tratterebbe, dunque, di attribuire un ulteriore vantaggio economico ad aree che, nonostante la crisi, rimangono economicamente tra le più solide del Paese. Particolarmente rilevante, in proposito, il passaggio delle pre-intese del febbraio 2018 in cui si legge che va «fatto comunque salvo l’attuale livello dei servizi»: per le tre regioni, l’esito del percorso potrà, dunque, essere solo il mantenimento o il miglioramento della situazione esistente.
Dal punto di vista concettuale, è la stessa nozione di residui fiscali a venire messa in discussione. Con l’espressione «residuo fiscale» si fa riferimento al risultato ottenuto «sottraendo dalla spesa pubblica che ha luogo in un territorio l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti sullo stesso territorio» (p. 32). Se il risultato è negativo, allora la popolazione di quel territorio riceve in spesa pubblica meno di quanto versa in imposte. Diversi studi concordano nell’individuare Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana come le regioni che esprimono un residuo fiscale negativo. A seconda dei criteri di calcolo utilizzati, a esse possono essere aggiunte Lazio, Marche, Liguria e, tra le regioni a Statuto speciale, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Tutte le altre regioni hanno residui fiscali positivi, sia pure in misura ultimamente meno marcata a causa del maggiore impatto che le misure di austerità adottate in questi anni hanno avuto sul Mezzogiorno.
Il ragionamento sui residui fiscali – argomenta Viesti – è tuttavia viziato da un errore concettuale che lo mina alla radice (e che già era stato messo in luce in questo sito: Verso una secessione delle regioni ricche). A beneficiare della spesa pubblica e a pagare le imposte non sono infatti i territori regionali, ma i singoli cittadini, sulla base della loro condizione di benessere o di bisogno, che è tale a prescindere dal luogo in cui risiedono. Aggregare i cittadini sulla base della loro appartenenza territoriale è, oltre che giuridicamente sbagliato, ideologicamente arbitrario. È giuridicamente sbagliato, perché nel nostro ordinamento costituzionale la cittadinanza è nazionale, non regionale, dunque gli inderogabili doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. valgono nei confronti di tutti i cittadini italiani, non nei confronti dei soli corregionali. Ed è ideologicamente arbitrario perché – anche a voler far proprio il discorso sui residui fiscali – non si capisce per quale ragione lo si dovrebbe limitare alle regioni evitando di spingerlo alle province, ai comuni, ai quartieri, alle strade, ai condomini, ai pianerottoli. Perché, per esempio, nessuno sostiene che il comune di Pino torinese mantiene quello di Castelnuovo don Bosco, mentre si legge che la Lombardia “mantiene” la Sicilia? Evidentemente, perché mentre l’ideologia regionalista esiste, non altrettanto può dirsi per l’ideologia “comunalista”.
Il punto è che nell’ambito della Repubblica, operano meccanismi di redistribuzione della ricchezza, in forza dei quali vi sono cittadini che beneficiano di interventi di spesa pubblica finanziati con il gettito derivante dalle imposte pagate, in misura maggiore, da altri cittadini. Esattamente quel che prevede il combinato disposto degli artt. 3, co. 2, e 53 Cost., per i quali la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che, in concreto, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ed è tenuta a farlo raccogliendo le risorse necessarie tramite un sistema tributario ispirato a criteri di progressività. È il cuore stesso del dettato costituzionale, rivolto alla realizzazione di quel principio personalistico che per molti studiosi è il vero tratto distintivo della nostra Carta fondamentale. Sostituire la solidarietà nazionale tra tutti i cittadini italiani con una pluralità di solidarietà regionali tra di loro contrapposte significherebbe trasformare le autonomie regionali in fattori di potenziale disgregazione dell’unità della Repubblica, in violazione dell’equilibrio tra autonomia e unità sancito nell’art. 5 Cost. Se proprio si vuole parlare di residui fiscali, occorre farlo, in definitiva, con riguardo agli individui, assumendo a riferimento il principio di eguaglianza «che implica che il residuo fiscale (il saldo tra i benefici ricevuti dalla spesa pubblica e il contributo al finanziamento della spesa) sia lo stesso per individui che si trovano nella stessa posizione» personale socio-economica, a prescindere da quale sia la loro regione di residenza (p. 35).
Il libro si sofferma, infine, sulle nuove competenze che verrebbero assunte dalle regioni: ben ventitré materie nel caso della Lombardia; un numero minore in quelli del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Occorrerebbe, anzitutto, verificare se alcune esigenze di autonomia non potrebbero essere comunque soddisfatte attraverso forme di decentramento o di devoluzione meno incisive. Inoltre, sarebbe preferibile muoversi con grande prudenza in ambiti quali le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la tutela della salute, l’istruzione. Con riguardo a quest’ultima, di fronte al rischio di una vera propria «regionalizzazione» della scuola (assunzione del personale, rapporto di lavoro, organizzazione del servizio, programmi, ecc.), sarebbe preferibile arrestarsi completamente: l’istruzione scolastica uguale per tutti è, probabilmente, la principale precondizione alla realizzazione della cittadinanza e solo il suo mantenimento in capo allo Stato può davvero garantire il raggiungimento di tale obiettivo.
www.volerelaluna.it, 30 gennaio 2019