Ma al di là del verdetto, contro il “masochismo istituzionale” sarebbe bene tener conto di un altro macigno emergente dal processo: l’esistenza del “polipartito della mafia” con cui Dalla Chiesa indicava la compenetrazione illecita fra Cosa nostra e alcuni settori politico-amministrativi. Andreotti era dentro il “polipartito”, di cui facevano parte anche – fra gli altri – Vito Ciancimino, Salvo Lima, i cugini Ignazio e Nino Salvo, Michele Sindona. Chi fossero costoro e come interagire con loro Andreotti lo sapeva benissimo.
Ciancimino, responsabile dello scempio urbanistico di Palermo, nonostante le collusioni mafiose emerse, riuscì ad instaurare con la corrente di Andreotti un solido rapporto, invano ostacolato da Pier Santi Mattarella e poi da Sergio Mattarella.
Alter ego di Andreotti in Sicilia era Salvo Lima, punto di riferimento di varie famiglie mafiose, che a lui si rivolgevano anche per l‘aggiustamento di processi. Questa stabile collaborazione con Cosa nostra assicurava alla corrente andreottiana voti in cambio di favori illeciti. Un’interazione che era fonte reciproca di ingenti disponibilità finanziarie.
I cugini Salvo – mafiosi e massoni – costituivano, insieme a Lima, un’architrave del potere andreottiano in Sicilia. Forti di un impero economico-finanziario costruito grazie agli spropositati aggi concessi alle loro esattorie private, foraggiavano vari politici, in particolare la corrente andreottiana. Giacomo Mancini ha testimoniato che i cugini Salvo “comandavano la Sicilia” e “lo sapevano anche a Torino”.
Furono Lima ed i cugini Salvo ad affiancare Andreotti nei due incontri organizzati in Sicilia con il boss Stefano Bontate per discutere il caso dell’integerrimo Pier Santi Mattarella, entrato in rotta di collisione con la mafia e alla fine da questa trucidato.
Michele Sindona riciclava per Cosa nostra (in particolare per Bontate). Impressionante è la sequenza di pressioni per favorirlo, anche dopo l’emissione di un ordine di cattura per bancarotta fraudolenta. Chi osava opporsi rischiava: anche il carcere, dove finì ingiustamente il vicedirettore della Banca D’Italia Sarcinelli, mentre al Governatore Baffi fu evitata l’infamia solo per ragioni di età. Giorgio Ambrosoli fu addirittura ucciso su ordine di Sindona per l’onestà con cui si era opposto al salvataggio del bancarottiere siciliano, a favore del quale invece si mobilitarono Andreotti, altri politici, ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2. Anni dopo l’omicidio Ambrosoli, Andreotti lo commentò in maniera beffarda con le sinistre parole che “se l’era cercata…”
Dunque, il “polipartito della mafia” ha operato concretamente come un tentacolare intreccio, torbido e velenoso. Non si tratta di teoremi o di accidenti o di bagatelle che si possano rimuovere. In questo modo si fa, appunto, del “masochismo istituzionale”. Si fa del male alla democrazia. Perché se in certi periodi essa ha dovuto registrare una salute debole, buona cosa sarebbe ricordarne le cause, affinché il bubbone dei rapporti mafia-politica non si perpetui. Ma non è certo con le amnesie che si curano i bubboni.
Huffington Post, 14 gennaio 2019