“Con l’approvazione del decreto Sicurezza si stravolge di fatto la Costituzione”. La voce dell’ Associazione Nazionale Partigiani ancora una volta si leva per dire la verità. E la dura, triste verità è che festeggiamo l’ ottantesimo delle leggi razziali con una legge francamente razzista. Non solo sul piano del colore della pelle, ma anche su quello sociale. L’ aspetto più odioso della legge Salvini è forse proprio l’ evidente odio verso i poveri. Torna la tassa (già introdotta dalla Lega nel 2009 e poi abrogata) sulle rimesse dei migranti. Sì: non sulle transazioni finanziarie, non sui grandi capitali. Ma sui soldi che i poveri mandano a casa.
E poi l’idea di città, una città sicura solo per alcuni: i negozi etnici diventano diversi da quelli italiani; i vigili urbani col taser; i daspo urbani che si allargano; la perdita dell’ asilo politico anche per i furti in appartamento; il raddoppiamento del tempo in cui i migranti possono essere inghiottiti nei non-luoghi dei Centri di permanenza per il rimpatrio; pene più severe per chi occupa immobili abbandonati; il carcere per chi chiede l’ elemosina con insistenza, e per i parcheggiatori abusivi. È una condanna della marginalità sociale, una persecuzione del disagio. Il “degrado” delle città viene fatto coincidere con la povertà: che non si cura, ma si punisce. Fino al vertice simbolico dello smontaggio della stessa idea di cittadinanza, che ora si può revocare per terrorismo, ma solo a chi non l’ ha acquisita per nascita. Colpire, nascondere, sorvegliare la città e la cittadinanza dei poveri: tenerla distinta e separata da quella dei ricchi, in una regressione secolare.
Ora, tutto questo non si combatte con un “fronte repubblicano”, o comunque lo si chiami. Ed è per questo, che con tutta la mia devozione all’Anpi, non condivido l’appello “alle forze politiche democratiche” cui l’Associazione dice: “Basta divisioni, discussioni stucchevoli, rese dei conti”. Credo che l’egemonia culturale della destra salviniana – perché di questo si tratta – non si combatta con l’unità dei pochi militanti, ma con un discorso di verità. E la verità è che “l’Italia entra nell’incubo dell’ apartheid giuridico” (così ancora l’Anpi) non oggi, col decreto Salvini.
È una storia più antica, i cui protagonisti negativi sono in larga parte proprio quelli che oggi (del tutto strumentalmente) si affollano dietro la bandiera della resistenza civile alla barbarie. In un piccolo, prezioso libro di dieci anni fa (Lavavetri, Terre di Mezzo 2009) Lorenzo Guadagnucci ha raccontato come la retorica della sicurezza e del decoro urbano siano nate nella Firenze -largamente pre-renziana- del sindaco Leonardo Domenici e del suo assessore-sceriffo Graziano Cioni. Nel luglio del 2008 (nel pieno delle campagne sulla sicurezza del governo Berlusconi), la giunta “di sinistra” fiorentina varava un Regolamento di Polizia Urbana nel quale è possibile leggere in chiaro non solo la radice, ma un bel tratto della malapianta che oggi fiorisce grazie a Salvini.
Guadagnucci racconta come il fiorentino Pier Luigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia, e la stessa Procura di Firenze furono costretti a intervenire smentendo l’ amministrazione: nessuna reale esigenza di sicurezza giustificava la stretta anticostituzionale contro i lavavetri e i rom fiorentini. Mentre alcuni preti digiunavano sotto Palazzo Vecchio con cartelli che dicevano “bisogna combattere la povertà, non i poveri”, il governo Berlusconi varava il pacchetto sicurezza di Maroni, che ricalcava in larga parte quello lasciato dal governo Prodi e non approdato al Parlamento per la crisi dell’ esecutivo. Nell’ introduzione a quest’ ultimo si leggeva che, pur diminuendo i reati, bisognava rispondere all'”insicurezza percepita”.
Era il 2007 quando il segretario del Pd e sindaco di Roma Veltroni teorizzava che la sinistra doveva “rispondere al bisogno di legalità” con “fermezza e assoluta severità”. È qui che nasce l’ egemonia culturale della destra: quando la sinistra smette di dire e di pensare che la sicurezza (di tutti, e non solo dei “salvati”) si costruisce con la giustizia sociale, non con la repressione. La cattiva strada era stata imboccata molto prima: per esempio con la legge Turco Napolitano del 1998, definita da Giuliano Amato “una sfida alla nostra coscienza e alla nostra stessa Costituzione”. È questa strada che porta fino all’ abisso di Minniti, che togliendo (tra l’ altro) ai migranti il terzo grado di giudizio sancisce formalmente quell’ apartheid giuridica che oggi si denuncia.
In sintesi: non esiste una soluzione di continuità, ma solo una terribile escalation tra Salvini e ciò che ha detto e fatto il centrosinistra quando ha governato le città e il Paese. O si capisce questo, e si agisce di conseguenza, o l’egemonia di Salvini durerà davvero a lungo. Per sconfiggerlo ci vogliono altri pensieri e altre parole: nessuna resistenza è possibile senza la verità.
Il Fatto quotidiano, 1 dicembre 2018