Riace non è una fiction. Non è una bella favola, un’utopia, un miraggio. Se fosse così, non avrebbe nessun nemico, nessun sabotatore. Invece, se il Ministro della Paura oggi cerca di abbattere Riace è perché è tutto vero: e perché il messaggio che viene da Riace è, per chi la pensa come lui (e come il suo predecessore ‘di sinistra’), un messaggio eversivo. Perché la retorica della paura, fondata sul dogma dello straniero come nemico, si squaglia come neve al sole di fronte a una realtà tangibilmente diversa. Una comunità la cui identità coincide con l’umanità è l’antitesi dell’idea di nazione fondata sul sangue e sull’esclusione. Un’idea atroce, quest’ultima, e carica di pericoli.
Ha scritto Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». È a causa di questa profonda consapevolezza che l’unico dei principi fondamentali della Costituzione in cui sia menzionata la parola ‘nazione’ è l’articolo 9, che lega l’idea di nazione alla cultura, al paesaggio, all’arte. Siamo infatti una nazione per via di cultura: e dunque meticcia per storia, aperta per definizione. Grazie al suo straordinario sindaco, e ai suoi cittadini (di qualunque colore abbiano la pelle, in qualsiasi parte del mondo siano nati) l’articolo 9 a Riace è stato, ed è, attuato. Un popolo nuovo vive tra le pietre antiche che in tutta Italia restano abbandonate.
Oggi che Mimmo Lucano è stato arrestato per aver violato leggi che violano la Costituzione non possiamo non dirci riacesi: non lasciamo che questa piccola città della Costituzione e dell’umanità venga strangolata dalla politica degli imprenditori della paura, che vivono nella paura di essere smentiti dalla realtà.
Oggi siamo tutti a Riace con il cuore e la mente. E, se fosse vivo, il primo a precipitarsi laggiù sarebbe – ne sono certo – Piero Calamandrei: come fece andando in Sicilia a difendere Danilo Dolci, fuorilegge in nome della Costituzione.
In queste ore terribili, rileggiamo allora la magnifica arringa di Calamandrei:
Signori Giudici.
Questo processo avrebbe potuto concludersi, meglio che con la parola mia, con la parola di un giovane. Le parole dei giovani sono parole di speranza, preannunziatrici dell’avvenire: e questo è un processo che preannuncia l’avvenire.
Signori Giudici.
Avrebbe dovuto parlare prima l’imputato, Danilo Dolci che è un giovane; e dopo di lui, non per difenderlo ma per ringraziarlo, il più giovane dei suoi difensori, l’avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così questo processo sarebbe finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo Dolci e gli altri imputati, i cosiddetti “imputati”, sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi, come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l’assoluzione, a far Pasqua con le loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di questo processo, è stato meglio che sia avvenuto così: che abbiano parlato anche i vecchi e meno giovani; e non brevemente.
E così l’onore e la responsabilità di chiudere la discussione e di rivolgervi, signori giudici, l’ultima preghiera che vi accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia età, ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un avvocato civilista, cioè un avvocato che non ha esperienza professionale di processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di vedere in quell’uomo, anche se innocente, il reo, l’autore del delitto: l’uomo che ha ripudiato la società, che è una minaccia per la convivenza sociale.
L’imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c’è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov’è il reo, il delinquente, il criminale? Dov’è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo, saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco solo. Dove sono gli imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo tutti imputati.
In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla è quasi si direbbe il vertice magico di questo processo è in quella formula laconica intarsiata con caratteri antichi sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre aule si legge scritta sul muro al disopra delle teste di giudici, quella frase che suscita tante speranze ma anche tante perplessità: “La legge uguale per tutti”. No: il motto di questa aula è molto più laconico, misterioso e conciso come la risposta di un oracolo: “La legge”.
Questo è l’imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati dalla stessa passione: “de legibus”.
Il Tribunale che siede è per definizione l’organo che, amministrando giustizia, fa osservare la legge. Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge. Noi avvocati siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah… di nient’altro che di aver voluto anch’essi servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli immemori il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a noi e i giudici nei loro seggi più alti? di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi impronte della delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno accanto a loro la fredda insensibilità dell’aguzzino. Io so che essi, quando mettono le manette a questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest’aula incatenati, come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro facce rimangono serene e sorridenti; ma un’ombra di mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi che oggi lo accompagnano, l’epiteto di ” assassini “. Danilo non parlava e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dare colpa alla polizia, la quale è soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall’alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito dire che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia che oggi è commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di favore che egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d’ora dopo che io ero uscito e così lasciò ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo essere grato a lui per essere arrivato un quarto d’ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto d’ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose che contano in questo processo.
Quello che conta è un’altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s’intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d’accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è ” una comunissima vicenda giudiziaria “, e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle “correnti di pensiero” che i testimoni hanno portato in questa aula.
Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d’accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo ” comunissimo “: è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo.
Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l’imputazione di volontaria osservanza della legge con l’aggravante della premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, con la quale, per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la “spiccata capacità a delinquere del detto imputato”: il ” detto imputato “, per chi non lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando l’hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant’anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a se stesso:-Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran delinquente, un caso tipico di “spiccata capacità a delinquere”.
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua ” spiccata capacità “?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l’aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l’aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l’insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa “spiccata capacità a delinquere ” che l’ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?
Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due “misfatti”.
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi dicevo, di una complicità.
Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno: “Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo”. Quando tornai dopo due giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene dall?avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si proponeva. Se in quello che ha fatto c?è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque responsabile anch?io di complicità e, e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per leggervi c?è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:
“abbiamo ripetutamente documentato alle Autorità direttamente responsabili e all’opinione pubblica, per anni e anni, la pesca fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi e all?economia nazionale.
” E? profondamente doloroso e offensivo constatare che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi più elementari, più giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato civile, qui sono stati assolutamente inefficaci. Decisi a fare rispettare le leggi, promuoviamo un movimento che non si fermerà fino a quando il buon senso e l’onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì, 30 gennaio, digiunando per 24 ore.”
Seguono circa 300 firme tra loro sono anche numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza dell’azione.
Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze sono semplici e chiare. Una piccola popolazione di poveri pescatori vive alla meglio con la pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino alla costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci, devono tenersi al largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si beffano sfrontatamente della legge; da tempo vengono a pescare nel mare vicino alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai piccoli pescatori. Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle autorità, condanna i piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle autorità; ma le autorità non provvedono. Protestano, ma le autorità non ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità siano d’accordo coi contrabbandieri; e che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi dovrebbe darla: si ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: ” Voi non avete da mangiare: non avete di vostro altro che la fame. L’unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando, i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe riservato a voi. Consoliamoci insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico bene, la fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e ascolteremo la musica di Bach”. (Qualcuno ha sorriso su questo particolare della musica: non ha ricordato che anche nella prima guerra mondiale questo era il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: “canta che ti passa”.)
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli agenti dell’ordine. Voi pensereste che intervengono finalmente per rimettere nella legalità i moto pescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro rapina. No gli agenti dell’ordine intervengono per pigliarsela con Danilo: per diffidare Danilo e i pescatori dal mettere in atto il loro proposito.
– non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.
-Ma come possiamo non diginare se non abbiamo più pesce da pescare?
-Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto.
E? un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l’ordine pubblico.-
l’ordine pubblico di chi? L’ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben nutrita, che va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia disturbata dalla modesta vista dei pallidi affamati.
Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo. Si legge sul solito documento.
“I cittadini di Partinico, donne comprese, proseguiranno l’azione giovedì 2 febbraio come è detto nella loro dichiarazione:
“Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all’anno con le mani in mano. Stare sei mesi all’anno con le mani in mano è gravissimo reato contro la nostra famiglia contro la società.
“Solo qui in Partinico su 25000 abitanti siamo in più di 7000 con le mani in mano per sei mesi all?anno e 7000 bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato.
“E? nostro dovere di padri e di cittadini collaborare generosamente perché cambi il volto della terra, bandendo gli assassini di ogni genere. Chiediamo alle autorità, di collaborare con noi, indicando quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti dai tecnici, cominceremo dalle più urgenti.
” Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio; giovedì 2 febbraio cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane con le mani.
“Vogliamo essere padri e madri anche noi e cittadini.”
Seguono circa 700 firme.
Anche le circostanze di questo secondo misfatto sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell’interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: “Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l’ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà”. Che cosa è questo? E? la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è un caso di “negotiorum gestio”: un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio al senso di solidarietà civica.
Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffida e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione sediziosa.
E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: “spiccata capacità a delinquere”.
E poi riprende la parola il P.M.: “otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici”.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
E?, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: “per noi la vera legge e la Costituzione democratica”; il commissario Di Giorgi risponde: “per noi l’unica legge è il test unico di pubblica sicurezza del tempo fascista”.
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi “non scritte”. (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.
E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle “correnti di pensiero”, che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.
Ma che cosa sono le leggi , illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse “correnti di pensiero”? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire pacificamente l’avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro, durante i quali l’altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito cristiano trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di singoli casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito umanistico del diritto comune.
Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: “pari dignità sociale”; “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; “Repubblica fondata sul lavoro”; “Diritto al lavoro”; “condizioni che rendano effettivo questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”…
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. “le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano”. Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le ” nostre ” leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato per il libro di Danilo Dolci Banditi a Partinico, è riportato come tipico un episodio.” Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione -dice il padre. -Niente. Mi mandano a chiamare i carabinieri: -ci vuole questo documento. -Subito facciamo questo documento, subito. Poi mi mandano a chiamare in Municipio e mi dicono che ci voleva stato di famiglia, atto matrimoniale, fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci ho mandato in Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. E 12 anni “ca ci cumbattu cu sta pensioni”. E la moglie: “Have a cridere che a mia mi ritiraru lu librettu e mi disseru:-Ora se nè pò ire che vossìa have la pensioni”.
Questa è la maledizione di Partinico, ma questa è sempre stata anche la maledizione di Italia. In ogni regione d’Italia più o meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli uffici amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio importante o strepitare. Ma forse neanche screditare conta; perché se strepita il povero, viene il commissario Di Giorgi che lo porta in prigione.
E allora ecco Danilo:
-Basta con questa maledizione, basta con questa sfiducia; ma basta anche con la violenza. Voi dovete credere nelle leggi; voi dovete credere nella giustizia di chi governa. La legge è come una religione (una religione di cui questa aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge faccia i suoi miracoli, bisogna crederci.-
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei promessi sposi, nella famosa scena dell’osteria.
Ricordate? “pane, abbondanza, giustizia.” Lo sente dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di quei tempi. Renzo ci crede: anche lui si mette a ripetere “pane, abbondanza, giustizia”. E va a finire nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. E dunque anche lui soltanto ingenuo? Soltanto un illuso? No: Danilo è qualche cosa di più. Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l’incontro con un bambino morto di fame. Quando nell’estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi “in un mondo di condannati morte”; e gli apparve chiara l’idea che questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: ” su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere “. E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni. Ma ecco che qui entra ancora in scena il commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta la quotidiana certezza del conformismo, la voce scettica dei benpensanti:
-Danilo Danilo, sono utopie, sono illusioni! (“fanatismo mistico” ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: -Danilo, ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un architetto, uno scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i poveri di Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame… Danilo, chi te lo fa fare?-
La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante, non segue la rassegnata è soddisfatta voce del buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un’antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all’ordine dei “fraticelli della povera vita”, che praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all’abiura: “sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!”. Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi: “pentitevi voi de? peccati, pentitevi delle usure, delle false mercantzie”. (Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c’era anche, pieno di buone intenzioni, il commissario Di Giorgi: “Illusioni, utopie, chi te lo fa fare?”.)
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: “Ma perché ti ostini a voler morire?”, egli risponde: “Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch?io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti”. E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: “ma dunque costui ha il diavolo addosso?”; al che l’altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzato dal pianto): “Forse ci ha Cristo”.
Per questo, signori Giudici, voi avete visto le “correnti di pensiero”, che in questo momento sono vicine a Danilo, sfilare in quest?aula a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di voi pressioni o intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto per testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della cultura italiana per Danilo Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare; siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi sentite il dovere di valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà? Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi testimoni non soltanto un senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso più profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura: per aver tardato tanto ad accorgersi di questi dolori; per aver atteso, prima di accorgersi, che fosse Danilo a dare l’esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo Dolci e proprio qui: di questo uomo di cultura, che per manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro fame, dividere il loro giaciglio, scende nella loro forzata abiezione per aiutarli a ritrovare e a reclamare la loro dignità e la loro redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l’eroismo; qualcun altro potrebbe anche essere tentato di dire la santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell’inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d’avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria.
Per Danilo no. L’eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffoca la dignità umana, egli ha voluto mescolarsi con loro e confortarli non con i messaggi ma con la sua presenza; diventare uno di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una delle loro pale e un po’ di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, con la eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.
Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi immagino i loro discorsi: “In fondo, un brav’uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un piantagrane”.
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità. Dopo avere attestato l’altezza morale di Danilo, egli continuava: “Certo sarà noioso per le autorità costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo San Francesco o San Bernardino da Siena”.
Si, i santi sono noiosi: e in generale, anche senza disturbare santi, è certo che in questa società compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile, sono insopportabili questi importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso come un rimprovero vivente, che nel mondo esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è tornato in mente. Vi confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i codici per prepararmi a questa discussione, mi sono messo a ricercare nelle vite dei santi il testo preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che fosse nella vita di San Filippo Neri ma non l’ho trovato. Forse è nella vita di Don Bosco.
Certo, o l’uno o l’altro, si trattava di un santo: ma finché fu vivo era considerato come un terribile spettatore dei ricchi, alle cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: lì perseguitava con le sue preghiere, fino a che anche i più avari, pur di levarselo di torno, gli davano quello che chiedeva: e lui correva a portare pane agli affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore ricchissimo, ma particolarmente iracondo e prepotente: e tanto insistè, nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d?ira, lo investì di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le percosse senza muoversi, come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza neanche ripararsi il viso con le mani (forse lo fece per non essere imputato, dal P.M. di quei tempi, di “resistenza”). E alla fine, quando quel prepotente si fu sfogato, riprese candidamente: “sta bene, questi sono per me: il conto torna. Ma ora bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i denari per i poveri…”.
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il testo originale dove questo episodio è raccontato per esteso. Siamo d’accordo: anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per questo lo hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo vorrebbero tenere per altri otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E la fame di Partinico? I bambini che muoiono di fame a Partinico? Che darete ad essi? Che parola di speranza di conforto uscirà per essi dalla vostra sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una “comunissima vicenda giudiziaria”. Questo non è il processo di Danilo Dolci. Su quella panca degli imputati non c’è lui; altre colpe, altre incurie, altre crudeltà, altri delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. È la causa del nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di “bonifica costituzionale”; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa bonifica. Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere qui al vostro fianco, per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende, addolora e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra angoscia: anche noi ci sentiamo bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi prendere sulle nostre spalle, con l’aiuto della Costituzione, il destino del nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall’Italia che mi ha fatto arrossire. C’era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: “In Italia a chi chiede rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria”. Non è vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!
PIERO CALAMANDREI
Pubblicato in “Quaderni di “Nuova Repubblica””, 4, 1956, p. 15, anche in “Il Ponte”, XII, 4, aprile 1956, pp. 529-544 e in Processo all’art. 4,”Testimonianze”, 8, pp. 291-316. Testo stenografico dell’arringa pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo.