La Società Geografica Italiana ha 150 anni, festa con Mattarella a Villa Celimontana

25 Maggio 2017

Mi torna in mente, dopo anni, la traccia del tema degli esami di maturità. Era del De Sanctis e diceva – cito a memoria – che un’opera, un personaggio, se valgono, sono come uno scrigno inesauribile dal quale ciascuno, in ciascun tempo, riesce a cogliere quello che più gli si confà.

Sarà per questo, allora, che attorno ad un’immagine ne nascono altre ed è come se si formasse un campo di analogie, simmetrie, contrapposizioni ed un diverso modo di intendere, come nella lezione di Calvino sulla vivibilità.

Così è la forza dell’immaginazione, la fantasia che combina, anima l’intero processo della conoscenza della terra…fino al dominio della ragione che disarticola e scompone la realtà per trovarne le leggi, mediante le quali i fatti sono ricondotti all’unità, come dirà in seguito Farinelli, interpretando Humboldt. Come se su una scacchiera ognuno di noi affrontasse la sua partita col mondo, con la vita, con le cose, talvolta secondo l’ossimoro dell’assurdo della ragione e del dolore.

Un paesaggio non è così come appare ad un primo sguardo: mai limitato a ciò che l’occhio vede, che appare immenso alla mente, quasi una forza estranea e indistinta, che poi provvede a riordinare i ricordi dando loro significato e freschezza, come una storia del giorno prima.

E quello che scriveva W. Auden – un nuovo stile architettonico è un cambiamento del cuore – è qualcosa di più di una ricercata idea letteraria. Proprio perché la città si imbeve dei ricordi e le case, le strade, i monumenti nel tempo si rivestono di sguardi, di pensieri, del respiro degli uomini. Anche “lì dove gli angeli non osano metter piede” (G. e M.C. Bateson).

Ed è lungo questa strada, che si realizza attraverso particolari intuizioni e riflessioni, in rappresentazioni di più o meno originalità e vigore, il comune sentimento dei luoghi, dei problemi che la vita, la storia, la società pongono momento dopo momento. Come se su una scacchiera ognuno di noi affrontasse la sua partita col mondo, con la vita, con le cose, talvolta con l’ossimoro dell’assurdo della ragione, con il dolore.

Così è il nostro sguardo a questo nostro vecchio mondo, un mondo impastato di tante cose dove nascono e muoiono gli uomini… dove si continuerà a vivere ed a morire: e perciò ad amare ed a odiare, a lottare, a piangere ed a ridere.

Già Gunnar Olsson osservava: ”Con l’importanza tradizionalmente attribuita allo spazio, alla misurabilità e al paesaggio visivo, la geografia si è consegnata ai lineamenti superficiali dell’esterno. Dato che l’esterno è nelle cose e non nei rapporti, abbiamo prodotto studi sulla reificazione in cui un uomo, donna, bambino vengono inevitabilmente trattati come cose e non come quegli esseri umani sensibili, in continua evoluzione, che siamo… Ecco perché si sente tanto dolorosamente il bisogno di una prospettiva più umanistica, non solo nella geografia ma nelle scienze sociali in genere”.

Questo lo diceva, tanto tempo fa, a Gibellina, a proposito della doverosa necessità di interrogarsi sulle geografie, ad alcuni di noi, Vincenzo Guarrasi, Franco Farinelli, Giulia De Spuches, a me, ad altri.

Come non concordare allora con Raffestin (1981) quando ammoniva che era importante saper leggere tutto ciò e che la geografia politica non doveva “essere distaccata dalle cose quotidiane, ma al contrario essere costantemente di fronte alla «produzione del mondo» che c’inonda e ci sommerge…”? Deve – senza posa – ritornare verso gli esseri e le cose… deve saper essere «immediata».

Ci sono i fatti del mondo poi, migrazioni bibliche, inenarrabili povertà, traffico delle risorse, corruzione, iconografia abusata di minoranze, emarginazione, terrorismo e tant’altro sono altrettante relazioni di potere che interrogano una geografia necessariamente immediata.

Non quindi una geografia evenemenziale quanto invece una geografia che colga il senso degli eventi che si strutturano nel territorio in una intelaiatura poggiata sulle coordinate dello spazio territorio e del tempo. Laddove le strutture sono, per lo più, il telaio della storia sociale: quella dei destini collettivi, degli aggruppamenti umani coerenti, solidali e armonici; in una parola “i complessi di una civiltà” (L. Gambi, 1964). Certo una geografia scomoda, la nostra, che può essere sovversiva, ad esempio, se racconta la storia e il dramma degli immigrati che colorano di sangue il Mediterraneo, o di quelli che vengono rifiutati e ghettizzati.

Una geografia dove si squaderna la pagina commovente della lotta umana per la vita, per la sopravvivenza, per un destino civile, nel mentre si rilegge con amore il paese, la sua storia, le sue diversità, tradizioni, anima, paesaggi: cosi come nelle definizioni di Lucio Gambi e poi, vent’anni dopo, in un intera generazione di geografi che si ritrovarono con Pasquale Coppola a comprendere un territorio da pensare al plurale. E ancora come non riandare all’<Italia delle Cento città> e poi alla differenziane produttiva del territorio, segnalata da un’intera generazione di economisti e sociologi che trovò una sponda importante nella ricerca geografica italiana degli anni 80 sotto la guida di Giuseppe Dematteis?

Ed è qui, nel nostro variegato ma unitario associarci, nella Società geografica, nostra agorà, luogo di eccellenza del dialogo anche internazionale, che si contribuisce ad elaborare analisi per una possibile razionalizzazione della speranza in un doveroso principio di responsabilità.

Come ha ricordato il Presidente Bencardino, tutto questo intesse ed aggiunge senso – ormai da molti decenni – al nostro essere qui. C’è tuttavia un prima, un molto prima, che non possiamo doverosamente ignorare, cosi come non può ignoralo la totalità dell’accademia, quando il rapporto tra la capacità di visione, di analisi, di teorizzazione, addirittura di memorizzazione, ha finito col divenire funzionale a logiche che nelle premesse, poi nel manifestarsi assoluto, cogente, e nei tragici esiti, fu obiettivamente devastante.

La lucida e severa analisi di Lucio Gambi lo riassume attraverso un’analisi congrua con le motivazioni e con lo spirito della Resistenza che poi sarà la (nostra) Costituzione. Del resto, come non riandare agli Atti del convegno di Torino della fondazione Firpo – di una decina di anni fa – dove si esplicitava che “a ben pochi nuclei di studiosi e ricercatori, fu concesso di rimanere al riparo dalla influenza rigidamente proveniente dall’alto”, e questo lo si analizzava senza alcuna pretesa di sminuire singole o collettive responsabilità.

E, quasi in un’autoanalisi del nostro vissuto, come non dare ragione a Silvio Lanaro, quando, nella sua Storia della Italia Repubblicana (Marsilio,1992) – utilizzando Noventa – ci invitava non a semplici proclamazioni di antifascismo quanto invece a spazzare via quel tanto di fascismo che abita in ognuno di noi. Non aveva detto Gobetti che questo era stato anche autobiografia del Paese?

E il nostro sapere sarà allora fedele ad un impulso orientato non tanto all’analisi degli oggetti quanto dei processi e delle relazioni di cui il tessuto della vita associata si costituisce nel rapporto dialettico e problematico con i quadri ambientali e con le strutture della vita materiale.

L’inesausto programma di lavoro della geografia umana, inventata un secolo fa da Paul Vidal de La Blache e dai suoi allievi, è illuminante. L’ambizione era quella di fare una geografia non soltanto delle forme di distribuzione sulla superficie del nostro pianeta degli esseri umani, quanto delle loro paure, dei loro timori, delle loro speranze, del loro grado di felicità oltre che dei loro bisogni.

Nel tempo in cui, da più parti, si invoca un nuovo Rinascimento – se non un nuovo Umanesimo – la geografia si conferma la forma di sapere più umanistica che si possa concepire, quella che è alla base di ogni altra futura possibilità di conoscenza.

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* E non è stato un caso che sia stata proprio la Società Geografica, con il past president Franco Salvatori e il curatore dell’opera, uno dei primi allievi del Compagna, Tullio Daponte, a consegnare al allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la raccolta di tutti gli articoli pubblicati da Nord e Sud, la storica rivista fondata e diretta ( dal 54) da Francesco Compagna, politico di livello e geografo, che fu punto di riferimento di una composita ricerca storico-critica interdisciplinare di intere generazioni intellettuali sul nodo del Mezzogiorno. E ne sottolineiamo qui gli apporti degli studi di geografia politica, filosofia, sociologia, urbanistica e di pianificazione territoriale, per un approccio alla questione meridionale come questione essenzialmente urbana, nazionale e comunque allargata ad un ambito anche europeo.

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(*) Socio del Circolo di Messina di Libertà e Giustizia. La cerimonia si è svolta nella capitale il 16 maggio 2017

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