Landini: “Serve una nuova cultura del lavoro”

01 Marzo 2017

La sua università è stata la fabbrica. I suoi punti di riferimento provengono dal mondo sindacale e hanno le sembianze di Giuseppe De Vittorio, Claudio Sabattini e Bruno Trentin. Per lui il vero nodo è soltanto uno: il lavoro. “Bisogna ricostruire un pensiero nel quale il lavoro torni ad essere il perno centrale per un nuovo modello fondato sulla giustizia sociale”. Maurizio Landini ci accoglie nel cuore di Roma, al terzo piano di un palazzo dove sventolano in cima le bandiere dei sindacati metalmeccanici Fim, Uilm e Fiom. Nella sua stanza un dipinto con scritto “C’è chi dice NO”, sotto una poesia di Bertolt Brecht.

Dal rapporto Tecnè sulla qualità dello sviluppo emerge la fotografia di un Paese in cui la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi, la ripresa economica è fragile, cresce la disoccupazione giovanile e la disaffezione nei confronti della politica. Un quadro desolante. Landini, come se ne esce?

Innanzitutto dobbiamo affrontare il nodo della diseguaglianza sociale e per farlo va attuata una rivoluzione culturale. La politica delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni e dell’assenza di qualsiasi vincolo al mercato ci ha portato all’attuale sfacelo tra precarietà esistenziale, compressioni salariali e disoccupazione. Dobbiamo invertire la rotta, attuare nel Paese un’operazione di contenuto politico e sindacale dove si ipotizza un nuovo modello di sviluppo nel quale il lavoro deve riassumere un’importanza centrale, insieme ai diritti di cittadinanza: avere un’occupazione significa poter vivere dignitosamente e partecipare alla vita democratica di un Paese.

Sul tema dei diritti per i lavoratori, c’è chi sostiene che Matteo Renzi ha fatto più danni di Silvio Berlusconi. E’ d’accordo?

Assolutamente sì, l’attacco all’articolo 18 è un aspetto emblematico: si è passati da una legislazione che difendeva il singolo lavoratore da un licenziamento ingiusto – che così aveva possibilità di reintegro – ad un impianto che tutela esclusivamente l’imprenditore, anche se pessimo. Cambia il sistema valoriale e assistiamo ad un capovolgimento culturale. Il governo Renzi è arrivato dove si era fermato Berlusconi ed ha deciso di schierarsi con gli imprenditori abbandonando i diritti e la dignità del cittadino/lavoratore.

Adesso Renzi parla di “lavoro di cittadinanza” rispolverando il pensiero del sociologo Luciano Gallino. Un passo in avanti o rimaniamo sempre indietro visto che nel resto d’Europa si parla di reddito di cittadinanza?

Bisognerebbe ricordare a Renzi che senza diritti non c’è cittadinanza nel lavoro e quindi che la prima operazione da fare è cancellare il Jobs Act. Poi, visto che lo si cita, bisognerebbe anche ricordare a Renzi che Gallino non ha mai contrapposto un piano per il lavoro con un intervento pubblico alla possibilità di introdurre un reddito minimo o un reddito di dignità. Le due cose non sono contrapposte, questo è l’errore che si sta facendo nel nostro Paese.

Lei insiste nella centralità del lavoro e nel frattempo è favorevole all’introduzione del reddito di cittadinanza?

Occorre un piano straordinario per il lavoro, che affronti anche il problema di un ruolo pubblico nel lavoro di cura e di manutenzione del territorio, in cui lo Stato possa svolgere un ruolo di soggetto di ultima istanza sul lavoro, ma questo non è sostitutivo né alternativo a un possibile reddito di dignità o reddito minimo. Anche perché per poter reggere un reddito minimo, che deve essere naturalmente a carico della fiscalità generale, è chiaro che bisogna puntare a un obiettivo di piena e massima occupazione. In questo senso non condivido chi contrappone lavoro e reddito, le due cose devono andare avanti di pari passo e servono innovazioni culturali e di proposta per entrambe le soluzioni.

Torniamo al Jobs Act, l’Inps attesta il flop del provvedimento con il crollo della crescita dei contratti stabili (-91,1 per cento nel 2016).

Non è un caso che l’82 per cento dei giovani ha votato No alla consultazione dello scorso 4 dicembre. Renzi ha dichiarato che il Jobs Act è la cosa “più di sinistra” fatta dal governo, se veramente è questa la sinistra – permettimi la battuta – credo che nessun giovane scelta oggi la sinistra. Come Cgil, oltre a sostenere la raccolta firme per il referendum, abbiamo depositato una legge di iniziativa popolare per riscrivere l’intero impianto sul lavoro, dal 1997 – il famoso pacchetto Treu, sempre di un governo di centrosinistra – ad oggi. Dobbiamo stabilire che i diritti fondamentali, inseriti nella nostra Costituzione, devono essere garantiti a tutti i lavoratori, compresi gli autonomi. E qui, sottolineo, è un passaggio storico per un sindacato: occupiamoci anche dei lavoratori autonomi.

Dopo la consultazione sulla riforma costituzionale, faranno di tutto per non far esprimere i cittadini sul Jobs Act?

Il referendum del 4 dicembre è stato uno spartiacque. Ha votato il 70 per cento degli italiani, 6 milioni in più rispetto alle Europee: un dato su cui è giusto soffermarsi. Persone che non si sentono rappresentate da nessun partito alle elezioni ma che hanno sentito la necessità di esprimere un voto in difesa della Costituzione e contro i provvedimenti del governo Renzi. Altro che antipolitica, il referendum sulla Costituzione si è caratterizzato per una domanda di partecipazione senza precedenti.

Sì, ma siamo ancora in attesa di sapere quando si voterà per il referendum…

La data va fissata urgentemente ed è auspicabile sia accorpata alle elezioni amministrative per ridurre i costi della politica. La campagna referendaria non solo cancellerebbe voucher e leggi sugli appalti ma rimetterebbe in discussione il tema del lavoro e, più in generale, di una nuova politica economica e sociale nel Paese.

È preoccupato dalla eventuale frantumazione del Pd e delle divisioni a sinistra?

In realtà sono preoccupato per la frantumazione sociale e per la divisione nel mondo del lavoro. La competizione tra persone ormai è endemica: non ho mai assistito ad una tale atomizzazione. In questo momento c’è bisogno di unire, il Paese è già contrapposto. E la scissione Pd assume un significato se riuscirà ad aprire una discussione vera sulle strategie da attuare in futuro, altrimenti questa diatriba porterà ad un ulteriore allontanamento della gente dalla politica.

Intanto la sinistra, intesa in senso lato, ha perso il contatto col suo popolo e non sembra dare risposte adeguate. Pensiamo al recente scontro a Roma Uber vs tassisti. Da un lato una multinazionale in rappresentanza di un capitalismo predatorio e senza regole, dall’altra una difesa corporativista e lobbista…

Un mercato senza regole alimenta la guerra tra poveri. Da anni non si vuole regolamentare quel settore, i lavoratori si sentono soli. I tassisti sono arrivati ad avere 30/40 sigle sindacali e parliamo di nemmeno 6mila lavoratori, una frammentazione che non porta a nessuna rappresentanza. Ci vogliono regole chiare che valgano per tutti, anche per le multinazionali.

Quindi Landini sta coi tassisti?

E’ un problema di logica, non di schieramenti. Regolamentare quel settore ha una sua correttezza quando le multinazionali non pagano nemmeno le tasse, o no? Poi il dramma è che la frammentazione genera speculazioni politiche e quelle sigle che professano apologia del fascismo, in piazza coi saluti romani, fanno solo male alla causa dei tassisti.

Usciamo dall’Italia e guardiamo la tendenza globale, si sta affermando un duopolio: da un lato il blocco dell’austerity, dall’altro – come reazione – il populismo. Una sinistra d’alternativa è ormai fuori dai giochi?

Il punto non è ricostruire la sinistra ma ridare al Paese una cultura del lavoro. Il lavoro inteso come perno centrale del ridisegno del sistema sociale e democratico. Fermarsi alla parolina sinistra non serve, del resto la maggioranza delle persone non sa neanche più cosa voglia dire. Bisogna avere l’ambizione di provare a produrre un cambiamento e in questo senso il cambiamento lo produci se sei in grado di rimettere in movimento la gente. Posso fare un esempio?

Prego.

Nel 1970 si giunge allo Statuto dei lavoratori grazie a un ciclo di lotte e in Parlamento lo votarono tutte le forze politiche, tutte, tranne il Pci che si astenne perché lo considerava insufficiente. Questo avvenne perché in quegli anni le rivendicazioni dei lavoratori avevano egemonizzato la società, andando ben oltre i recinti della sinistra classica. Si era affermata una cultura del lavoro trasversale. Questo è l’insegnamento da riproporre oggi.

Nel dicembre 2015 Landini dichiarava: “Non mi interessano i cocci della sinistra” e snobbava il progetto di Sinistra Italiana. Pochi giorni fa era al congresso di Rimini e ha detto: “È ora di unirsi, non di dividersi”. Ha cambiato idea?

Ero semplicemente ospite al loro congresso e quando parlo di unità mi riferisco – come spiegavo prima – ad un’azione collettiva per fermare l’enorme frammentazione sociale. Tra la gente leggo due aspetti fondamentali: la paura e il bisogno di concretezza. Bisogna fornire risposte concrete a chi ha timore di rimanere disoccupato o di finire a vivere sotto i ponti. Ci vogliono fatti concreti, non più parole.

E Sinistra Italiana può dare una mano o è parte del problema?

Dipende da cosa faranno, ci misureremo di volta in volta coi partiti. Sono un sindacalista e ho due tessere in tasca: quella della Cgil e quella dell’Anpi. Stop. Le organizzazioni sindacali devono rimanere autonome ed indipendenti dai partiti e accelerare una proposta di trasformazione sociale che metta al centro il lavoro.

Nel 2018 ci sarà il nuovo congresso della Cgil, non crede sia doverosa una forte autocritica dell’organizzazione?

Il sindacato o si riforma o rischia seriamente di morire. E in tutta Europa esiste questo dibattito. Nello stesso momento, bisogna valorizzare alcune scelte della Cgil: la difesa della Costituzione al referendum del 4 dicembre, l’idea di una carta universale nel quale si prova per la prima volta a ragionare sulla rappresentanza dei lavoratori autonomi, le firme raccolte contro il Jobs Act, la legge di iniziativa popolare per riscrivere il mercato del lavoro, il contrasto alla precarietà tramite politiche inclusive. E poi l’idea di estendere la democrazia introducendo altri principi come il diritto alla formazione, una nuova legge sulla rappresentanza, la riduzione dell’orario del lavoro, il reddito minimo. Siamo ponendo le basi per dire No ad un sindacato di mercato o corporativo e siamo progettando un nuovo modello confederale di relazioni sindacali.

In questi anni, malgrado le richieste, si è sempre rifiutato di scendere in politica preferendo la battaglia dentro al sindacato. Ma quante possibilità ha di diventare nuovo segretario del Cgil? Ci spera veramente?

Il soggetto sindacale è un soggetto politico, quindi ho fatto politica in questi anni.

Non faccia il furbo, Landini. Ha capito la domanda: ha preferito non fare il leader di un nuovo soggetto politico che si presentasse alle elezioni.

(ride) Sono cresciuto dentro il sindacato e la battaglia che sto facendo nella Cgil è a prescindere da quel che può succedere al sottoscritto. Comunque sono pronto a mettermi a disposizione per una sfida di rinnovamento.

Quindi sta ammettendo che si candida?

Al momento non mi sono candidato a nulla, poi si vedrà.

È candidato, allora. In bocca a lupo.

 

MicroMega online, 28 febbraio 2017

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