QUANDO UN PAESE È SENZA GOVERNO

03 Settembre 2016

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il mito liberale e quello anarchico si incontrano in un punto: la possibilità e la desiderabilità che la società si governi da sola, senza un governo politico né una classe politica separata che ne diagnostichi i bisogni e imponga soluzioni. Robert Nozick dedicò a questa utopia anarco-liberista riflessioni importanti e più che mai attuali. Pochi anni fa il Belgio riuscì a cavarsela egregiamente senza un esecutivo per un anno e mezzo. Oggi una simile situazione si ripropone in Spagna, dove la società civile sembra farcela molto bene pur senza un esecutivo che funzioni e con la prospettiva di una nuova tornata elettorale che, si spera, faccia uscire il Paese dal blocco del tripolarismo. Dallo scorso dicembre la Spagna è senza un governo stabile eppure, scriveva Ettore Livini ieri su Repubblica, non vi è alcuna catastrofe: il Pil cresce “a ritmi da tigre asiatica”, crescono i posti di lavoro, lo spread con i Bund è più basso di quello dell’Italia. Certo, la deregulation è dominante, il lavoro è precario, e la sicurezza pensionistica un sogno. Eppure tutto sembra andare per il meglio, come nel paese di Pangloss.
Le discussioni politiche sulla necessità di governi forti corrono parallele alla cronaca di queste rare situazioni in cui sembra imporsi il mito di un apparato immateriale di norme condivise capace di tenere insieme la società con lacci meno arbitrari di quelli imposti dalla politica, dominata dalle volontà elettorali e dalle trattative tra i partiti. Ovviamente si deve presumere che la società sia coesa abbastanza da procedere pacificamente, con interventi coercitivi minimi o isolati. In tale condizione di forte omogeneità egemonica, la relazione tra governo politico e società civile può allentarsi. Questa è la premonizione del movimento liberista.
Commentando il collasso dei regimi socialisti e la conseguente consunzione delle ideologie politiche classiche nei Paesi occidentali, Francis Fukuyama sosteneva anni fa che queste trasformazioni post-democratiche avrebbero rafforzato la percezione che non solo non ci sarebbe stata alternativa al dominio neoliberale, ma inoltre che questo dominio sarebbe stato essenzialmente di natura non politica, capace di sopravvivere senza un governo centrale come quello messo in essere dagli Stati nel corso degli ultimi due secoli. Il declino della motivazione individuale a partecipare alla vita politica elettorale era secondo Fukuyama un fenomeno correlato al costituzionalismo funzionale di una società che si autogestisce. E gli esempi rari ma non irrilevanti come quelli del Belgio e della Spagna sono indicazioni conturbanti di quanto poco irrealistico sia il mito del nuovo ordine della self- governace society.
È interessante anche osservare come questi fenomeni eccentrici di autogovernance procedano paralleli all’ argomento pressante a favore di esecutivi forti che vadano a correggere la democrazia parlamentare classica, iperpolitica e basata su una società strutturata per corpi intermedi e partiti. In entrambi i casi si auspica un minimalismo democratico. Un’aspirazione che gli estensori del documento sulla Crisis of democracy per la Commissione Trilaterale avevano caldeggiato già nel 1975: per correggere una società civile troppo politicizzata e con una rappresentanza politica troppo direttamente protagonista nelle scelte dei governi. Interrompere questo circolo vizioso tra società e politica era possibile, si legge nel documento della Trilaterale, correggendo il sistema istituzionale in senso esecutivista e nello stesso tempo liberando la società civile dai vincoli delle politiche redistributive e dallo stato sociale. Il minimalismo democratico è coerente con questo progetto di depoliticizzazione. In questa diagnosi, il declino della partecipazione nei partiti e nella politica elettorale non è soltanto desiderabile, ma segno della funzionalità dell’ordine sociale: l’apatia politica è indice di buona salute del sistema e di autonomia della società civile dallo Stato.
Tale concezione della governabilità nel volgere di pochi anni è entrata a far parte del discorso pubblico corrente, legata a un’ idea secondo la quale gli individui sono meno desiderosi di associarsi, soprattutto in partiti, assorbiti dal perseguimento delle loro carriere. La politica è sempre più un orpello dunque e, come nel caso spagnolo, quasi il residuo di un mondo disfunzionale e antico. Antonio Arroyo, 24 anni e una laurea in Economia aziendale mai sfruttata così sintetizza lo stato delle cose nell’intervista di Livini: «La politica ha fallito. Siamo orfani del bipolarismo. In questi giorni i partiti litigano persino su dove sedersi in Parlamento eppure le cose non vanno proprio male: da quando la Spagna non ha più medici al capezzale sta molto meglio!».
La Repubblica, 1 settembre 2016

(*) Presidente di Libertà e Giustizia

 

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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