Alcuni ufficiali del Pentagono hanno espresso alla Cnn la preoccupazione dell’esercito per l’annuncio di Donald Trump di voler “impiegare l’esercito per imporre l’ordine all’interno degli Stati Uniti”. L’esercito è la faccia del potere sovrano contro gli eserciti dei Paesi stranieri, non contro i cittadini del proprio Paese. Trump, asserragliato nella Casa Bianca come fosse in guerra, ha reagito alle imponenti manifestazioni seguite all’uccisione di George Floyd come un capo militare attaccato e pronto a dar battaglia. E ha infuocando gli animi.
Ha usato parole simili a quelle usate pochi mesi fa dal presidente cileno, Sebastián Piñera che di fronte alle imponenti manifestazioni causate dal rincaro del prezzo dei trasporti pubblici annunciò il coprifuoco e lo stato d’assedio, dicendo di essere «in guerra contro un nemico potente, che è pronto a usare la violenza senza limiti».
I vandalismi spesso provocati da infiltrati “bianchi nativisti” con lo scopo di provocare queste reazioni da parte del governo federale sembrano aver preparato la strategia di Trump, le cui reazioni gettano benzina sul fuoco. Trump si autoproclama il “Presidente di legge e ordine” contro “anarchici, antifascisti e estremisti”. E nel nome dell’America pacifica infiamma il Paese. Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono teatro di lotte violente. Né è la prima volta che l’azione arbitraria della polizia si esercita contro afro-americani e infuoca le città.
La storia politica della prima democrazia moderna è nata insieme alla lotta contro la schiavitù, coloniale e domestica. Un popolo sorto su due visioni molto diverse di repubblica: quella dei liberi aristocratici che vivono del lavoro servo degli schiavi, come nella tradizione classica; e quella dei liberi uguali nel diritto secondo la repubblica dei moderni.
Queste due visioni di libertà, una come privilegio dei migliori, e una radicata nell’uguaglianza, non sono mai tramontate. Si sono innervate della nuova America imperiale, sede di un capitalismo predatorio e, come ha scritto Cornel West, reverendo battista e docente alla Divinity School di Harvard, indifferente alla democrazia. La lotta tra le due Americhe è il contesto in cui si dibatte oggi “la più grande democrazia del mondo”, messa in ginocchio dalla pandemia e con livelli di povertà e di disoccupazione mai così alti dai tempi della Grande depressione del 1929.
In questa America divisa si alimenta il virus del razzismo. Il quale veste i panni del suprematismo bianco, un groviglio di ideologia che si sprigiona dalla rabbia per il declino della dignità del lavoro, volata via insieme all’occupazione verso quei Paesi dove il lavoro è merce a buon mercato. I bianchi che perdono lavoro si sentono maltrattati nel merito, vittime di un’ingiustizia della quale incolpano generazioni di politiche di sussidi che avrebbero, così dice l’ideologia suprematista, agevolato gli afro-americani e le altre minoranze etniche e penalizzato i bianchi. Il merito e il demerito seguono la razza. Questa propaganda è tradizionalmente la valvola di sicurezza contro le letture classiste della crisi e della povertà.
Ma è una propaganda che mentre fa un pessimo servizio all’immagine del Paese (perfino la Cina si è fatta maestra di diritti!) si dimostra falsa. Sono davanti ai nostri occhi le immagini dei poliziotti che si inginocchiano in segno di condanna del poliziotto di Minneapolis che ha compresso con un ginocchio il collo di Floyd fino a provocarne la morte. L’America è più di una.
È importante vedere le enormi manifestazioni pacifiche e il tentativo della Casa Bianca di identificarle con chi pratica le devastazioni, per giustificare l’uso della forza militare e limitare la libertà. Come ha detto Elizabeth Warren, correggendo l’inopportuno silenzio del candidato democratico, Joe Biden, nell’America di Trump «le nostre vite e la democrazia sono in pericolo».
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La Repubblica, 03/06/2020