Se Verdini sia o non sia il mostro di Lochness, secondo il quesito lanciato da Renzi, non è l’interrogativo più interessante dell’autunno. La vera domanda è se il Pd è un serpentone di mare, se è destinato a diventarlo, o se rimane fedele alle ragioni per cui è nato. È dunque una moderna forza della sinistra italiana e non solo europea, sia pure nell’interpretazione radicale renziana, oppure è un’illusione ottica della sinistra, un miraggio della tradizione, una pura costruzione di utile mitologia commerciale e di marketing politico? Ecco cosa c’è dietro la figura ingombrante dell’ex coordinatore di Forza Italia, per anni con residenza stabile nel palazzo berlusconiano, pluri- inquisito, sbrigafaccende plenipotenziario del Cavaliere, e ora migrante — si spera non economico — nella terra di nessuno, dove sostiene il governo sulle riforme senza far parte della maggioranza.
Impegnato per conto di Berlusconi nell’avvio del piano bipartisan di riforme, Verdini ha poi proseguito nell’appoggio al progetto del premier per conto suo, nel momento in cui il leader di Forza Italia — dopo la scelta di Mattarella come presidente della Repubblica — ha invertito la rotta, demonizzando quel che prima magnificava, e che aveva sostenuto col voto. Si potrebbe dunque dire che Verdini è coerente, al punto da rompere con l’incoerenza evidente di Berlusconi e prendere il largo. Ma è difficile pensare che siano ideali costituenti a gonfiare le vele di questa zattera del transfughi dalla disfatta di Forza Italia, con la bussola puntata sul governo di Renzi. Più facile pensare a qualche ragione politica, che rimane coperta perché Verdini non la rivela, mentre canta in tivù, e i suoi fanno gesti osceni al Senato. Le domande dunque cascano tutte su Renzi, com’è giusto e addirittura inevitabile. Vediamole.
Non c’è dubbio che le riforme costituzionali e di sistema (come anche la legge elettorale) non hanno e non devono avere un rigido recinto di maggioranza politica. Cambiando alcune delle regole fondamentali, è auspicabile che vengano votate col consenso più ampio possibile, meglio se con il concorso delle opposizioni governative. In questo senso ha ragione il premier, quando sostiene che i voti di Verdini aiutano le riforme e non le inquinano. Più sbrigativamente, l’ex forzista spiega che i suoi voti «non puzzano ». A parte il fatto che non ci si fa giudicare dal proprio naso, è impossibile che Verdini non veda le contraddizioni che impersona e che solleva intorno a sé.
Nel momento della massima tensione con la minoranza del Pd, che minacciava di non votare la riforma del Senato, Renzi ha infatti usato la pattuglia dei trasfughi di destra come riserva reale sostitutiva, dunque come arma di pressione nei confronti della sinistra interna, all’insegna dello slogan “i voti ci sono”, che lo ha portato a vincere. Ma così facendo si è comportato come se i voti di destra e di sinistra fossero fungibili (al di là dei numeri), e coi voti fossero equivalenti le storie politiche, le biografie di gruppo, le tradizioni. Mentre è invece indubbio che la qualità politica del voto sulla riforma del Senato cambia decisamente se è il Pd nel suo insieme ad assumersene la responsabilità, insieme con tutte le altre forze concorrenti, o se un pezzo del Pd viene sostituito da un pezzo della destra in movimento.
Ancora oggi, a risultato quasi raggiunto, il Presidente del Consiglio difende con decisione l’apporto di Verdini e l’accordo implicito che lo ha preparato, mentre sottostima l’accordo pubblicamente sottoscritto con la sinistra interna al suo partito, che ha portato il gruppo del Pd a votare compatto, salvo tre defezioni: quasi dovesse rivendicare il primo e nascondere il secondo. La ragione sembra psicologica, ma è invece profondamente politica. Era chiaro da mesi che il modello di successo da seguire era il “metodo Mattarella”, e cioè uno sforzo preliminare per unire tutto il Pd con una proposta di riforma convincente, per poi portare quel risultato forte e sicuro al vaglio e al concorso delle altre forze politiche. Il risultato perfetto della vicenda Quirinale dimostra che il Pd unito può essere non soltanto la forza di maggioranza relativa (una condizione che dipende dai numeri) ma il player del sistema, una condizione tutta politica.
Il giorno dopo l’elezione del Capo dello Stato, vista anche la rottura del patto del Nazareno decisa da Berlusconi, Renzi avrebbe dovuto proporre all’intero Pd di intestarsi la stagione delle riforme. Non lo ha fatto per il timore evidente di dover in qualche modo condividere la leadership, infilandosi dentro un perenne “caminetto” di capi e capetti che hanno in mano il potere di interdizione più che di soluzione. E anche per il timore nascosto di un incerto controllo sentimentale del Pd, di cui ha conquistato ampiamente il corpo, ma di cui continua forse a sfuggirgli compiutamente l’anima. Infine per la convinzione — certo non campata in aria — che una parte del suoi oppositori non fosse interessata ad alcun accordo, di qualsiasi tipo, preferendo piuttosto usare (e provocare) vuoti di maggioranza sulle riforme per far saltare il governo, anche a costo di un fallimento epocale del Pd.
In politica la realpolitik è una virtù, e Renzi in questo ha ereditato la tecnica dal Pci, che ne ha sempre fatto largo uso. Ma a questo punto deve chiarire se dopo la riforma del Senato i forzisti verdiniani restano per lui una forza di complemento alla maggioranza, in una sorta di “convergenze parallele” permanenti che nessun congresso ha discusso e approvato. La questione riguarda la fisionomia del governo, della sua maggioranza e anche del Pd del governo che è l’asse portante, tanto da farlo guidare dal suo segretario: siamo davanti a un centrosinistra o a un “indistinto” riformista che è definito non da basi identitarie ma solo dai suoi obiettivi, e per realizzarli prende i voti da qualunque parte arrivino, non domandandosi mai da dove vengono ma solo dove portano?
E qui si arriva al nodo del partito della nazione. Ripetiamo che se significa una costruzione politica con le radici e il tronco ben piantato nel territorio del centrosinistra e con le fronde che arrivano ad intercettare il centro, è ciò che il Pd voleva essere fin dalla sua nascita. Se invece è una pura infrastruttura politica indifferenziata che restringe la base ideale, rafforza il vertice, riduce ruolo e concorso del gruppo dirigente, rinuncia a una base sociale, raccoglie gruppi di interesse contraddittori, allora diventa un “partito pigliatutto”, secondo una definizione di scuola: una cosa diversa. Anche il concetto di nazione è contraddittorio, tra la definizione etnico-genealogica di discendenza e quella repubblicana e costituzionale, che nasce dall’uguaglianza nei diritti e nei doveri: bisognerebbe chiarire.
Quasi vinta la battaglia delle riforme, senza congressi alle porte, con segnali contraddittori ma costanti di ripresa economica dopo gli anni più bui della crisi, Renzi ha davanti a sé un appuntamento ambizioso, culturale e politico: definire il profilo del Pd — di cui è legittimo che dia nei fatti la sua interpretazione — e in base a questo profilo definire il cammino che resta della legislatura, del programma e delle alleanze. Per dirlo in grande, Verdini permettendo, si tratta di discutere addirittura di cosa dev’essere la nuova sinistra nel nuovo secolo, nell’interesse del Paese. Se non lo farà il Pd rischia di ridursi a pura prassi amministrativa, scambiando il Palazzo per il Paese, com’è avvenuto al berlusconismo che negli anni del comando non ha pensato di dare al suo potere un fondamento culturale: che è ciò che lega la politica ai cittadini ed è ciò che resta quando un leader passa, e se ne va.
Repubblica, 6 ottobre 2015