L’accelerazione impressa alla sua azione e, soprattutto, alle sue parole dal presidente del Consiglio- segretario del Pd richiede qualche riflessione sul modo in cui si va configurando il sistema politico italiano e sulla cultura che sostiene i suoi mutamenti.
L’accelerazione impressa alla sua azione e, soprattutto, alle sue parole dal presidente del Consiglio- segretario del Pd richiede qualche riflessione sul modo in cui si va configurando il sistema politico italiano e sulla cultura che sostiene i suoi mutamenti. La più evidente riforma è quella incarnata dallo stesso Renzi, per il modo in cui definisce il suo rapporto con i cittadini, che assume tratti simili a quelli descritti in un libro dedicato al capo e alla folla da Gustave Le Bon. Renzi declina questo rapporto diretto nel linguaggio attinto dal mondo digitale e parla di “disintermediazione”, ma la sostanza è quella. Si consegna all’irrilevanza tutto ciò che non è immediatamente riconducibile al consenso personale e alla sua proiezione sociale, com’è accaduto quando al milione di persone presenti a piazza San Giovanni si è contrapposto lo sguardo ostentatamente rivolto solo agli altri milioni di italiani (lo aveva già fatto Craxi contrapponendo le sue modeste percentuali parlamentari al consenso di cui diceva di godere nel Paese). Non è certo un caso se nelle analisi di commentatori tutt’altro che ostili alla linea del presidente del Consiglio siano cominciati ad apparire riferimenti ad atteggiamenti definiti plebiscitari. E non dimentichiamo che nella “democrazia plebiscitaria”, ampiamente studiata, si ritrovano anche quei tratti autoritari visibili nel modo liquidatorio con il quale Renzi si rivolge a critici ed avversari.
È vero che stiamo vivendo un tempo in cui le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno prodotto effetti significativi sull’organizzazione politica e sociale (ne scrivo da una ventina d’anni). Ma la disintermediazione non significa che l’unica via politica sia quella della cancellazione di ogni entità che si manifesta tra i luoghi del potere e la generalità dei cittadini. Se soggetti collettivi continuano a manifestarsi nella società, possiamo eliminarli con una parola? E bisogna riflettere sul fatto che, indeboliti o scomparsi alcuni degli storici mediatori sociali, altri ne sono comparsi al loro posto, a cominciare dagli onnipotenti motori di ricerca e dalle reti sociali.
Questa logica si insinua in modo sempre più pervasivo in ogni luogo, e in modo particolarmente aggressivo nella materia del lavoro. Quando ci si rivolge agli imprenditori dicendo di averli liberati dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si dice molto di più, com’è stato evidente nelle parole pronunciate alla Leopolda. Dal rapporto tra imprenditore e lavoratori non deve soltanto scomparire l’ingombro del sindacato, ma l’indebita presenza del giudice. Qui la disintermediazione investe un elemento fondativo della civiltà giuridica e restituisce una inquietante attualità ad una vecchia espressione — «la democrazia si ferma ai cancelli dell’impresa ». Si fa divenire l’ingiustificato licenziamento un atto legittimo, che non può trovare compensazione nella promessa pubblica di intervenire a sostegno dei licenziati. Vale pena di ricordare la storia del mugnaio di Sans-Souci, che alla prepotenza dell’imperatore Federico contrapponeva l’esistenza di giudici a Berlino. Dobbiamo rinunciare alla garanzia dei diritti, travolta da una logica economica che riconosce come regola solo quella che essa stessa pone?
Questo non sembra un buon viatico per la costruzione di un “partito della nazione”. E tuttavia, poiché questo sta accadendo, diventa più urgente tornare alla configurazione complessiva che così assume il sistema politico. Se il Pd dimagrisce, liberandosi dalle clientele, è cosa buona. Altro è il suo trasformarsi in una struttura che si dirama nei più diversi centri del potere, in presenza mediatica nella quale possa riconoscersi il maggior numero possibile di persone più che in vero soggetto collettivo (un altro caso di disintermediazione?). Ma la vera forza del Pd, riassunto nella persona del suo leader, sta nell’insistita affermazione secondo la quale ad esso e al suo governo «non v’è alternativa».
Qui è la sostanza del problema: le dimissioni della politica che è, in primo luogo, costruzione continua di alternative. Questa non è colpa di Renzi, che persegue i suoi obiettivi e cerca di sfruttare al massimo la condizione presente. È la registrazione dello sfascio di una destra mai costituita come tale, fondata com’era sulla figura di Berlusconi; di un Movimento 5Stelle che ha appena mostrato capacità di cogliere occasioni parlamentari, e però deve mostrare di saperla trasformare in incidenza costante sulle dinamiche politiche; dell’impossibilità di pensare il Pd di Renzi come partito “di lotta e di governo”.
Come funziona un sistema politico senza vera opposizione? Nel modo in cui sta funzionando quello italiano. Poiché si possono sterilizzare con astuzie varie le opposizioni interne e esterne, ma non cancellare il conflitto, l’opposizione si fa tutta sociale. Ecco la ragione del nuovo protagonismo del sindacato, soggetto sociale per definizione, che trae nuova forza dal dato materiale della disoccupazione e delle diseguaglianze crescenti e da quello politico dall’attacco esplicito ai diritti del lavoro. Ecco il motivo dell’insofferenza aggressiva di Renzi che costruisce nemici per azzerare confronto e dialogo.
Arriviamo così al punto essenziale. A destra l’opposizione è sopraffatta da una sostanziale convergenza con l’azione di governo. E il resto, quello che possiamo ancora chiamare sinistra? Qui dev’essere sciolto il nodo di una politica di sinistra capace di essere in sintonia con una società certamente cambiata, ma la cui novità non può consistere, come si cerca di fare, nel respingere sullo sfondo dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, perché sono ancora questi i principi che meglio colgono le difficoltà e i conflitti di oggi.
Le diverse sinistre, interne e esterne ai partiti, hanno finora inseguito formule e costruito aggregazioni casuali. Non sono state capaci di presentarsi con una identità definita, che può essere costruita solo attraverso una cultura politica rinnovata. Che non è impresa impossibile, se si riflette sul molto lavoro fatto in sedi diverse e da soggetti diversi: una nuova visione complessiva dei diritti fondamentali, dove quella del lavoro è inscindibile dal rispetto pieno di una persona riconosciuta nella sua libertà, nell’accesso alla cultura, nella garanzia della salute; le critiche dell’austerità di molti economisti, che coglie la necessità di una politica dominata dall’economia; la ristrutturazione degli ammortizzatori sociali nella prospettiva di un reddito garantito; le elaborazioni su beni comuni e servizi pubblici, che rischiano d’essere travolti dalla logica del fai da te, ben rappresentata dagli 80 euro alle neomamme al posto di asili; le proposte sui nuovi rapporti tra democrazia rappresentativa e partecipativa; la solidarietà tra persone e generazioni; l’attenzione concretamente rivolta a povertà e illegalità. Perché a sinistra non è stata finora fatta una riflessione complessiva su ciò che essa ha sparsamente prodotto?
E vi è l’Europa. Renzi dice che questa è la vera partita. Ma la sua presidenza dell’Unione non è stata segnata da una vera iniziativa sul tema della riforma delle istituzioni. Oggi si riscopre l’Europa attraverso la Carta dei diritti fondamentali, invano invocata in questi anni (anche su questo giornale). Si ricorda il suo articolo 30 sui licenziamenti ingiustificati, ma si deve andare oltre, agli articoli 31 e 34, che parlano di condizioni di lavoro giuste e eque, di garanzia dell’esistenza dignitosa, con una eloquente sintonia con l’articolo 36 della nostra Costituzione, che vuole garantita «l’esistenza libera e dignitosa», tutte norme che rendono ineludibile il tema del reddito garantito. In questi anni l’Europa ha cancellato la Carta, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed ha costruito una “controcostituzione” economica che annulla tutto il resto. L’Italia ha seguito questo cattivo esempio, abbandonando progressivamente la parte della Costituzione dedicata a principi e diritti. Ricostruire una rinnovata politica costituzionale non è solo il compito di una opposizione di sinistra, ma il fondamento essenziale d’un governo democratico.