Nella bruttissima storia del processo per la morte violenta di Stefano Cucchi una pagina tra le più brutte l’ha scritta un sindacato di polizia, dichiarando che “chi mette a rischio la propria salute ne paga le conseguenze”.
Come dire, per richiamare altre e non meno sgradevoli dichiarazioni del passato, che Stefano “se l’è andata a cercare”.
Chi rappresenta lo Stato cose del genere non dovrebbe nemmeno pensarle e chi governa la polizia, vertici politici compresi, non dovrebbe tollerare che la famiglia di Stefano e la sua memoria subiscano anche questi insulti. L’humus che ispira quelle dichiarazioni è quanto di più lontano dalla cultura costituzionale che ci ostiniamo a pretendere da tutti gli appartenenti alle forze di polizia.
Perché dietro c’è, trasparente, una visione della società divisa in due: e dalla parte sbagliata non ci sono solo i criminali, ma anche tutti quelli che non ce l’hanno fatta, che non sono riusciti a costruirsi una vita rispettabile e che vivono il proprio malessere rovinandosi e facendo male a se stessi prima che agli altri. Sono la parte più debole della collettività. Per questo, sembrano dire quei poliziotti, se muoiono è colpa loro.
Fa impressione anzitutto la mancanza di un minimo di compassione per un giovane che, comunque sia andata, è stato vittima di una morte atroce mentre il suo corpo e dunque la sua vita erano custoditi dallo Stato.
Fa impressione la disinvoltura con cui si pronunciano simili parole di disprezzo verso i deboli.
Non sanno, quei poliziotti, che le istituzioni di cui fanno parte hanno per principale compito quello di tutelare l’uguaglianza tra i cittadini, riequilibrando squilibri e ingiustizie con le scelte politiche prima e con le prassi quotidiane poi: è scritto nell’articolo 3 della Costituzione, su cui hanno giurato. Che a questa tutela, quando è stato commesso un reato, provvede il processo, che comincia con l’arresto. Che l’uguaglianza si tutela, nel processo e fuori, proteggendo i deboli dai forti, non viceversa. E che se di solito il più debole è la vittima del reato può accadere, guarda un po’, che si scopra talvolta che anche l’accusato e il condannato è, in fondo, “innocente” e vittima. Certo, vittima anche delle proprie scelte di vita (se si può chiamare scelta una dipendenza da sostanze). Ma questo non cambia le cose.
Il processo non è e non deve essere strumento di controllo sociale contro tutti gli irregolari della vita. Se troppo spesso lo è, quello è sempre un brutto giorno per la giustizia. E se anche i magistrati si piegano a questa logica, quel giorno è ancora più brutto.
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