Uguaglianza vuol dire proteggere i deboli dai forti

05 Novembre 2014

Nella bruttissima storia del processo per la morte violenta di Stefano Cucchi una pagina tra le più brutte l’ha scritta un sindacato di polizia, dichiarando che “chi mette a rischio la propria salute ne paga le conseguenze”. Come dire, per richiamare altre e non meno sgradevoli dichiarazioni del passato, che Stefano “se l’è andata a cercare”.

stefano-cucchiNella bruttissima storia del processo per la morte violenta di Stefano Cucchi una pagina tra le più brutte l’ha scritta un sindacato di polizia, dichiarando che “chi mette a rischio la propria salute ne paga le conseguenze”.
Come dire, per richiamare altre e non meno sgradevoli dichiarazioni del passato, che Stefano “se l’è andata a cercare”.
Chi rappresenta lo Stato cose del genere non dovrebbe nemmeno pensarle e chi governa la polizia, vertici politici compresi, non dovrebbe tollerare che la famiglia di Stefano e la sua memoria subiscano anche questi insulti. L’humus che ispira quelle dichiarazioni è quanto di più lontano dalla cultura costituzionale che ci ostiniamo a pretendere da tutti gli appartenenti alle forze di polizia.
Perché dietro c’è, trasparente, una visione della società divisa in due: e dalla parte sbagliata non ci sono solo i criminali, ma anche tutti quelli che non ce l’hanno fatta, che non sono riusciti a costruirsi una vita rispettabile e che vivono il proprio malessere rovinandosi e facendo male a se stessi prima che agli altri. Sono la parte più debole della collettività. Per questo, sembrano dire quei poliziotti, se muoiono è colpa loro.
Fa impressione anzitutto la mancanza di un minimo di compassione per un giovane che, comunque sia andata, è stato vittima di una morte atroce mentre il suo corpo e dunque la sua vita erano custoditi dallo Stato.
Fa impressione la disinvoltura con cui si pronunciano simili parole di disprezzo verso i deboli.
Non sanno, quei poliziotti, che le istituzioni di cui fanno parte hanno per principale compito quello di tutelare l’uguaglianza tra i cittadini, riequilibrando squilibri e ingiustizie con le scelte politiche prima e con le prassi quotidiane poi: è scritto nell’articolo 3 della Costituzione, su cui hanno giurato. Che a questa tutela, quando è stato commesso un reato, provvede il processo, che comincia con l’arresto. Che l’uguaglianza si tutela, nel processo e fuori, proteggendo i deboli dai forti, non viceversa. E che se di solito il più debole è la vittima del reato può accadere, guarda un po’, che si scopra talvolta che anche l’accusato e il condannato è, in fondo, “innocente” e vittima. Certo, vittima anche delle proprie scelte di vita (se si può chiamare scelta una dipendenza da sostanze). Ma questo non cambia le cose.
Il processo non è e non deve essere strumento di controllo sociale contro tutti gli irregolari della vita. Se troppo spesso lo è, quello è sempre un brutto giorno per la giustizia. E se anche i magistrati si piegano a questa logica, quel giorno è ancora più brutto.

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