TRA I tanti problemi che abbiamo ce n’è uno a monte di tutti, che forse è il cuore delle difficoltà di oggi e che tuttavia può diventare lo strumento principe del possibile rilancio, l’arma nascosta, la regina che muove rapida e potente tra i pezzi sulla scacchiera. È la politica. La politica in crisi, che ha perso la sua capacità di guidare la società e l’economia verso il futuro. La politica che deve ritrovare ruolo e dignità, coraggio e competenza, per affrontare le enormi sfide che abbiamo davanti a noi.
Un male sottile corrode oggi la politica in tutta Europa. I partiti e i loro dirigenti faticano a esercitare il proprio ruolo e ad assumersi le proprie responsabilità di fronte a opinioni pubbliche inquiete, che accusano la crisi, e la vivono con ansia e paura. Leader deboli rinunciano a guidare, come dovrebbe fare una vera classe dirigente politica, i propri cittadini e i propri elettori. È come se, nell’era della partecipazione globale, tutte le tradizionali paratie della democrazia rappresentativa siano saltate e i leader riescano a conquistare il potere solo collegandosi direttamente agli umori più elementari delle proprie popolazioni, lisciandone continuamente il pelo, e abdicando al proprio ruolo di guida.
Ecco allora che Angela Merkel finisce troppo spesso per andare dietro agli umori delle birrerie tedesche piuttosto che indicare alla Germania il senso e i vantaggi di un suo futuro europeo; ecco che in Francia Marie Le Pen conquista con i suoi messaggi elementari un consenso che il padre mai aveva raggiunto; ecco che qui e là in Europa crescono i partiti xenofobi e neofascisti, per non parlare della Grecia che rischia una fase non breve di notte della democrazia.
All’interno di questa malattia europea, c’è poi uno specifico tutto italiano: l’estinzione dei partiti tradizionali all’inizio degli anni Novanta ha infatti lasciato campo libero a fenomeni esasperati di populismo, da una parte, e dall’altra a partiti burocratici altrettanto incapaci, nella loro opacità, di visione e di leadership. È la politica debole contro cui oggi il Paese è in rivolta, in cerca di una nuova e buona politica, capace di porsi al livello dei grandi problemi che abbiamo di fronte e di proporre e attuare soluzioni adeguate.
È davvero preoccupante la distanza tra la dimensione dei nostri problemi e il grado di responsabilità, ambizione e lungimiranza dei leader europei chiamati ad affrontarli e a risolverli. Sessant’anni fa l’Europa usciva dalla più spaventosa guerra della sua storia. E la Grecia, ieri come oggi, era l’anello più debole. Fu la sua crisi economica a convincere gli Stati Uniti a intervenire con quel piano Marshall che avrebbe dato a Washington la leadership mondiale per mezzo secolo e oltre. Il presidente Truman non esitò ad andare di fronte al Congresso chiedendo 400 milioni di dollari in aiuti alla Grecia: “Gli Stati Uniti – disse – devono aiutare questo popolo libero”.
Guardino a quell’esempio, i leader europei. Nani dimentichi della lezione dei giganti. Dov’è oggi la politica europea di fronte agli enormi problemi che abbiamo davanti?
Guardino a quell’esempio e lo traducano nella realtà di oggi: non un piano Marshall, ma certamente una decisa accelerazione nel processo di costruzione di un’Europa federale, capace di competere per dimensioni e forza d’urto con i colossi in ascesa dell’economia mondiale. E, in attesa che il sogno di Altiero Spinelli si compia, da subito un’unione bancaria in grado di mettere in sicurezza le banche nazionali più esposte, un fondo comune in cui sterilizzare i debiti sovrani eccessivi dei singoli Stati, più poteri alla Bce sul modello della Fed americana, e poi gli eurobond.
Va creato un mercato di eurobond con un’offerta superiore a quella dei Fed-funds. Oggi i Tresury a tre anni offrono un modesto rendimento dello 0,1%. C’è uno spazio enorme per bond europei da vendere sui mercati mondiali, dagli Stati Uniti a Singapore: questo sì che farebbe scendere i tassi. E non di mezzo punto, ma di tre-quattro punti, con effetti immediati sulla tenuta dei conti pubblici e sulla crescita economica.
Il vero interesse della Germania non sta certo nella fine dell’euro o in un’unione monetaria ristretta ai paesi nordici. I tedeschi esportano il 60 per cento delle loro produzioni nel vecchio continente, una buona quota delle quali va proprio verso l’Italia e la Spagna. La Germania da sola sarà più debole, non più forte; i lavoratori tedeschi avranno buste paghe più leggere, non più pesanti. Ecco quello che una buona leadership tedesca dovrebbe spiegare ai suoi concittadini, land per land.
Non è chiedendo ad Atene, a Roma o a Madrid ulteriori “sacrifici” che si esercita la propria responsabilità davanti all’Europa. Sull’Economist di qualche tempo fa c’era una formidabile vignetta in cui la signora Merkel continuava a spiegare con bacchetta e lavagnetta, e con fare pedante, tutti i dettagli del crawl a partner europei che sbracciavano nell’acqua nell’atto di affogare.
Non è così che la politica esercita la propria responsabilità. Come non la esercita quando, da parte dei Paesi a rischio, si invoca l’Europa e si sollecitano i tedeschi a intervenire senza però avere la forza di imporre ai propri cittadini le riforme e i sacrifici necessari. Magari scaricando poi, populisticamente, la responsabilità della crisi dell’euro su un nemico esterno. L’euro cade? Non è colpa di quello che noi europei riusciamo a fare o a non fare: è responsabilità dell’America che attacca il vecchio continente, degli speculatori finanziari, magari delle agenzie di rating.
Gridando ai nemici alle porte non si risolverà neppure uno dei problemi dell’Europa. Questa verità va raccontata alle opinioni pubbliche dei nostri Paesi. Occorre spiegare che gli slogan secondo i quali i tedeschi non devono pagare il conto dei greci e degli italiani servono a far vincere – forse – le elezioni al partito della Merkel, ma non eviteranno ai tedeschi stessi e all’Europa una delle piú pericolose recessioni dell’ultimo secolo.
Servirebbe un Truman capace di spiegare tutto questo al Bundestag e al popolo tedesco. Anche perché per noi, per i tedeschi, la Grecia è qui, dietro l’angolo. Non è distante come lo era per gli americani sessanta anni fa. Un altro mondo per chi viveva in Arkansas. Ma in quel caso leadership vigorose e lungimiranti intuirono che quel mondo li riguardava direttamente. Lo intuirono e lo seppero spiegare all’opinione pubblica esercitando la propria responsabilità. “Il pianeta aveva bisogno di una leadership da Washington e la ebbe”, ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times. Oggi l’Europa ha bisogno di quel tipo di leadership, ma non riesce ad averla, né a Berlino né in altre capitali continentali.