La presentazione ieri a Bologna. Il capitolo mancante del loro libro-dialogo La felicità della democrazia, scritto prima dei risultati delle ultime elezioni comunali, Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky l’hanno aggiunto ieri davanti al pubblico che affollava la libreria Ambasciatori. Lo hanno fatto volentieri, rispondendo alla legittima, piccola rivincita di Rosy Bindi, presidente del Pd, partito maggioritario dell’opposizione, al quale nel libro del direttore di Repubblica e del presidente emerito della Corte costituzionale non sono risparmiate critiche severe: “Avreste scritto le stesse cose oggi, in questo paese che si è dimostrato non poi così addormentato e assuefatto al berlusconismo? Non c’è più voglia di riscatto, desiderio di ‘felicità’ democratica nell’Italia di questi giorni?”. Sì, c’è qualcosa di nuovo nell’aria, lo ammetteranno nell’ora e mezza di dialogo supplementare i due co-autori, ma con qualche accento diverso.
“Sì, lo avremmo scritto, un diverso epilogo”, ammette Mauro, concedendo al centro-sinistra di aver mostrato “una capacità di autonomia culturale che non si vedeva da anni”, un’agilità di “ripulsa ironica” contro il fango della destra, e anche la dignità nuova di chi “non deve più scusarsi di avere le proprie idee”. Ma la domanda allora diventa, per Zagrebelsky, “perché siamo rimasti diciassette anni in questa condizione di alienazione politica, di “servitù volontaria””.
Sempre ammesso che un ciclo politico sia davvero finito, cosa su cui il politologo Piero Ignazi, direttore de Il Mulino, non nasconde tutti i suoi dubbi: le promesse mancate della destra, una certa erosione del potere di persuasione della tivù hanno contato, il trono carismatico su cui Berlusconi salì nel ’94 è eroso, ma “i dati di fatto del populismo suadente restano ancora saldi”. Troppo presto per dichiarare la fine del berlusconismo? Sul senso stesso della definizione non c’è accordo: per Mauro descrive bene una cultura politica “della semplificazione governante, della dismisura e dell’abuso” che ha avuto facile ragione di una democrazia italiana esausta, che ha occupato lo spazio pubblico per quasi un ventennio e che non si identifica con la persona del suo eponimo, perché “il fenomeno Berlusconi non è solo istinto più televisioni”; mentre per Zagrebelsky non sta crollando un regime strutturato, “degno di essere promosso a ‘-ismo’”, ma sta solo “arrivando al punto finale una crisi della democrazia, dopo la quale può esserci, ma non è inevitabile, la sua rivitalizzazione”.
E qui naturalmente l’attenzione vira di 180 gradi, si concentra su chi dovrebbe proporsi al posto del modello scricchiolante. Il direttore di Repubblica vede un buon segno nella disponibilità del Pd a “reggere il peso dell’alternativa anche accettando di esserne solo una parte”. Ma la crisi italiana finirà, chiude Zagrebelsky, “solo in presenza di una forte alternativa politica al pensiero unico di questi anni, altrimenti la ‘felicità’ di questi giorni sarà un fuoco di paglia, seguito da un pericoloso disincanto”.
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