
Claudio Magris
Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell’altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa pure un presidente del Consiglio si commuoveva o almeno sentiva il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione sia pur frequente, bensì una regola.
Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive.
Questa assuefazione che conduce all’indifferenza è certo inquietante e accresce l’incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell’attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno.
Diversamente da altri casi, in cui l’indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall’identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine.
Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l’efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l’ordine del mondo né il cuore. L’assuefazione – alla droga, alla guerra, alla violenza – è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere – si dice in un romanzo di Bernanos – ed è questa la cosa più orribile».
Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un’altra e poi un’altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo – perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali – non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci fa piangere per un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma dobbiamo sapere – non astrattamente, ma realmente, con la comprensione di tutta la nostra persona – che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto reali.
Sta qui la differenza tra il pensiero reazionario e la democrazia. Il reazionario facilmente irride l’umanità astratta e l’astratto amore ideologico per il genere umano, perché sa amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che anche compagni di scuola di persone a lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. La democrazia – schernita come fredda e ideologica – è invece concretamente poetica, perché sa mettersi nella pelle degli altri, come Tolstoj in quella di Anna Karenina, e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare.
L’assuefazione al dolore non desta meraviglia a chi,per motivi anagrafici, ha vissuto la storia della televisione, strumento che aveva il merito di far entrare nelle case l’istruzione,l’informazione e la cultura.Inizialmente fu così,ma l’ingordigia e l’avidità proprie dell’uomo distrussero in maniera irreparabile tutto il bene che poteva sortire da essa.S’imbarbarirono i programmi,la volgarità salì al potere,le immagini più cruente vennero quotidianamente e ripetutamente mostrate senza limitazione di colpi.L’avvento poi della pubblicità più becera ha fatto il resto e sempre più peggiorando si è giunti ai giorni nostri creando i programmi del dolore.Siamo giunti al punto in cui la gente gode vedendo gli altri soffrire e piangere,si passano intere serate discorrendo di delitti efferati,di violenze, macerando i cervelli dei più deboli e incolti,tutto a vantaggio di chi poi ne sa trarre profitto.Tutto ciò è valso a raggiungere l’assefuazione al dramma,al dolore,senza più saper distinguere quello vero da quello creato artificialmente da quei demoni di cui Dostojeski ci aveva insegnato di dubitare.
Da autentico maestro di umanità, Claudio Magris ci mette davanti a un lato poco edificante del nostro animo. Un grande monito, il suo, che ci spinge a raffinare la nostra sensibilità. Ma soprattutto sembra indicare la drammatica necessità di una politica alta, ispirata non da emozioni che spesso si rivelano effimere e inaffidabili, ma da princìpi nobili, fondata sulla consapevolezza della comune condizione che ci lega a ogni altro essere umano, sul valore incommensurabile di ogni vita, unica e irripetibile.
Ringrazio dal cuore Claudio Magris che, con le incisive parole usate nel suo articolo, da me letto sul Corriere della Sera il 6 Giugno del 2011, riuscì a farmi commuovere al punto da spingermi a scrivere un monologo teatrale sul tema. Il lavoro teatrale si è trasformato negli anni, fino a divenire oggi un docufilm dal titolo “A me resta la speranza!”, sugli sbarchi clandestini e l’assuefazione al dolore.
Grazie per aver scosso la mia anima fino a tal punto.