Quando il fango cancella la politica

29 Dicembre 2010

Stefano Rodotà

In una bene ordinata repubblica si dovrebbe riflettere in primo luogo su una crisi che sta distruggendo l’intero tessuto istituzionale, senza farsi ogni giorno depistare da questa o quella microfibrillazione.
In uno Stato non immemore di quelli che ancora sono suoi compiti, si dovrebbe riflettere sulla crescente rifeudalizzazione dei poteri, che quotidianamente lo svuota e ne cambia la natura. In un sistema politico non perduto nell’autoreferenzialità si dovrebbe riflettere su quanto sopravviva della rappresentanza e reagire coralmente alla sostituzione dell’intera politica con una macchina del fango sempre in funzione che contribuisce alla decomposizione sociale. Mai, nella storia della Repubblica, gli scontri istituzionali erano stati così violenti, ripetuti, quotidiani, emblematicamente riassunti dagli attacchi continui del Presidente del consiglio a tutte le istituzioni di garanzia. Mai s’era avuta una legge elettorale che, come quella attuale, consegna la selezione dei parlamentari ad oligarchie ristrettissime e manipola la rappresentanza. Mai s’era vissuto un periodo di sostanziale instabilità come quello cominciato nel 2006, che sembra aver fissato in due anni la durata possibile d’una legislatura. Mai la vita pubblica era stata attraversata da tanti “mostruosi connubi”, dalla riduzione d’ogni cosa all’interesse privato, con irrisione palese di moralità e legalità.

Si potrebbe continuare. Ma quel che più deve far meditare è l’apparire congiunto di tutti questi fattori. La novità della situazione,
il reale mutamento qualitativo, derivano dal loro irrompere tutti insieme sulla scena pubblica, da una saldatura che ha cambiato faccia alle istituzioni e alla società, diventando così il vero connotato della cosiddetta Seconda Repubblica, il cui fallimento è certificato dal fatto che già se ne invoca una Terza.
Com’è potuto accadere tutto questo? La riflessione politica s’arresta. E le spiegazioni centrate sull’antiberlusconismo si rivelano inadeguate. E non perché non siano grandissime le responsabilità di chi ha dato nome a questa fase. Ma perché lo stesso fenomeno Berlusconi ha potuto espandersi in un contesto rivelatosi propizio. Di questo si dovrebbe parlare, e non lo si fa. Con danno grandissimo per la stessa progettazione politica. L’ostacolo a una riflessione adeguata, il tabù da rimuovere, si chiama bipolarismo. Il dommatismo fa sempre male, soprattutto in politica, dove una delle regole da osservare è proprio la valutazione di ogni iniziativa secondo le conseguenze che produce. Ed è indubitabile che la via scelta per il bipolarismo all’italiana si sia rivelata disastrosa, anche perché, in un impeto fideistico, non si volle tener delle cautele a suo tempo suggerite. V’erano molti modi di arrivare al bipolarismo nel contesto storico e istituzionale italiano, e invece si è scelto quello che apriva la strada al populismo e alla concentrazione dei poteri.

La riflessione politica deve partite dalla diagnosi critica della drammatica situazione attuale. Solo un’analisi impietosa può ricreare le condizioni per una politica di rinnovamento, che significa in primo luogo liberarsi del populismo e ripristinare le condizioni minime della stessa democrazia formale. E segnalo altre tre questioni che mi sembrano ineludibili.

La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato “neomedievalismo istituzionale”. Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l’indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all’appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni ’50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell’uomo. A molti tutto questo appare come innovazione, così come lo stesso Berlusconi viene presentato come l’incarnazione di un tempo di novità. Ma davvero non hanno nulla da dire le modernizzazioni autoritarie del secolo passato, e le diverse strade che seppero trovare le democrazie?

La Seconda Repubblica ci consegna gli attacchi allo stesso Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale, descritta come un manipolo di reduci della sinistra che viola le prerogative del popolo sovrano; ad una magistratura all’interno della quale si troverebbe una vera “associazione per delinquere”; al Parlamento in sé, volta a volta considerato come un intralcio o come luogo di spregiudicati reclutamenti. Ora siamo all’assalto finale. Questo hanno colto gli studenti, e il Presidente della Repubblica che, ascoltandoli, ha visto l’elemento che differenzia il movimento di oggi da quelli del passato, la volontà di essere protagonisti e, insieme, interlocutori delle istituzioni, nelle quali si riconoscono attraverso la Costituzione. Questo ha colto Daniel Baremboin quando ha aperto la stagione della Scala leggendo l’articolo 9 della Costituzione. Questo dovrebbero cogliere le forze politiche: la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo, com’era avvenuto nel 2006, quando 16 milioni di persone dissero no alla riforma costituzionale berlusconiana. Le forze di opposizione non hanno saputo, o voluto, amministrare quel patrimonio. Anche da una riflessione su questo punto può partire un rinnovamento della politica.

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