Vorrei richiamare l’attenzione su un fatto sul quale è caduto, dopo che ne fu data notizia, un preoccupante silenzio. Ma che, recenti informazioni, hanno rivelato rivestire notevole gravità.
Mi riferisco alla cena: quella cena che si svolse in casa di un giudice costituzionale, cui parteciparono il presidente del consiglio e altri membri del suo governo (Alfano, Letta, Vizzini, presidente commissione affari costituzionali del senato), in pendenza della decisione sul lodo Alfano (L’Espresso, 2 luglio 2009) , di cui dette notizia la stampa nel luglio dell’anno scorso.
Già l’episodio in sé, per quel che se ne seppe allora, lasciava stupefatti per la sua sconcertante inopportunità.
Le giustificazioni che se ne dettero allora, di fronte alle reazioni suscitate furono di doppio segno.
L’argomento della cena, si lasciò trapelare, non fu il lodo, ma le ipotesi di riforma costituzionale sul pubblico ministero; da sopprimere, per affidarne le funzioni all’avvocatura dello Stato: mi chiedo se sia concepibile che un giudice che deve esser fedele alla Costituzione, possa discutere con chi quella costituzione detesta per modificare uno dei suoi essenziali connotati costitutivi: perché nel sistema di legalità costituzionale, è al pubblico ministero che è affidato il compito di garantire l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale, che è obbligato a far rispettare. Cosa ancora più singolare fu, a mio avviso, la risposta che uno dei giudici dette, a chi lo criticava: in sostanza, si disse, alcuni per ignoranza, altri per malafede, hanno confuso e confondono il ruolo del giudice costituzionale con quello di normali tribunali, corti di appello ecc. è chiaro che un giudice di tribunale non può andare a cena, pranzo o colazione con persone che deve giudicare. Ma in questo caso è diverso: noi non giudichiamo mica il presidente del consiglio, noi giudichiamo sulle leggi.
Questo argomento appariva anche agli occhi di un profano aberrante. Se fosse fondato, dovremmo ritenere che nessuna delle cause obbligatorie di astensione previste dalla legge si applicano ai giudici costituzionali, non solo il trovarsi abitualmente a tavola: se così fosse il giudice sarebbe libero di prender parte alla decisione anche se avesse un interesse in causa o su identica questione (n. 1 dell’articolo 51cpc); se egli o la moglie fosse parente o convivente di una delle parti o dei difensori n.2; se avesse rapporti di inimicizia o di credito o debito con una delle parti- n.3; se ha dato consiglio o prestato patrocinio n.4 ecc. ecc.; e infine in ogni altro caso in cui vi siano ragioni di convenienza. Tutte cause di astensione obbligatoria per un giudice normale.
È vero invece l’opposto:
I) l’argomento del giudice delle leggi è un sofisma, perché le leggi incidono su posizioni personali e non è lecito fingere che il giudizio di costituzionalità sia indifferente nei confronti dei singoli che lo sollevano; il lodo Alfano ne è la più splendida conferma.
II) se quelle regole sono obbligatorie per garantire l’imparzialità – non solo come bagaglio interiore, ma come attributo visibile – del giudice, (quante volte ci siamo sentiti ripetere che il giudice non solo deve essere ma anche apparire imparziale) – nel massimo grado debbono essere rispettate dal giudice delle leggi; perché se il dovere d’imparzialità è la virtù professionale dei giudici – così la definiva Calamandrei – è dovere sommo per il giudice costituzionale, non essendo concepibile che il giudizio sulla costituzionalità delle leggi possa essere inquinato dal favoritismo o dalla ostilità verso l’uno o verso l’altro soggetto su cui la legge incide.
La pericolosità di questa linea di pensiero apparve subito evidente per la pretesa di costituire per questa via uno statuto autonomo del giudice costituzionale sottratto ai doveri propri di ogni organo giurisdizionale; a questo giudice sarebbe pienamente lecito avere rapporti o interessi con le parti, a suo esclusivo e discrezionale giudizio.
Ma quel che si è appreso in seguito è ancora più allarmante.
È risultato – e ne dà notizia il Fatto del 28 settembre scorso – che alcuni giudici della Corte sono stati contattati da un faccendiere per influenzare le loro scelte in vista della pronuncia sul lodo Alfano.
Ora non è male ricordare che tra i doveri del giudice, per dir così, ordinario, oltre al dovere generico di non tenere, anche fuori dell’esercizio delle funzioni, comportamenti, ancorchè legittimi, tali da compromettere la credibilità personale e il prestigio dell’istituzione giudiziaria (articolo 1 d.lgs 26 febbraio 2006 n. 109) v’è anche quello (articolo 2) della “consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione”, dell’ “omessa comunicazione (al presidente) delle avvenute interferenze”, e, per gli illeciti al di fuori dell’esercizio delle funzioni, quello di “frequentare persona sottoposta a procedimento penale” oltre ad ogni altro comportamento tale da compromettere l’imparzialità del magistrato “anche sotto il profilo dell’apparenza”.
Domando: è concepibile che i canoni di comportamento validi per ogni giudice della Repubblica, siano azzerati per il giudice costituzionale? O non è piuttosto vero l’inverso: che proprio la supremazia di funzione, ruolo ed effetti che su ogni giudice spetta al giudice delle leggi, impone che anche ad essi questi canoni si applichino, e nella misura più rigorosa possibile?
Su questa questione non è lecito chiudere gli occhi. Né interessa esplorare se tecnicamente le regole di disciplina ordinarie siano estensibili ai giudici della corte. Il problema è unicamente quello di tutelare la credibilità di questo giudice dinanzi all’intera comunità nazionale.
Se non ritiene il capo dello Stato di farne oggetto di un suo messaggio, o di una sua moral suasion – – cui tanto spesso ha fatto ricorso in situazioni di ben minore gravità, nei confronti dei giudici ordinari, perché non replicassero alle aggressioni incivili di cui sono quotidianamente oggetto, io credo che la società civile – e perché no, in primo luogo Libertà e Giustizia – possa indirizzare direttamente ai giudici della Corte un pubblico invito, nella forma di rispettosa sollecitazione, ad adottare una risoluzione che affermi che i suoi componenti si danno, spontaneamente e liberamente, un codice etico, che recepisca tutti i canoni di condotta cui sono tenuti i giudici ordinari.
Questa iniziativa in alcun modo potrebbe essere considerata irriguardosa verso quel Collegio, esprimendo anzi essa anzi la precisa intenzione di salvaguardare dinanzi all’intera comunità nazionale il prestigio e la credibilità dell’Istituzione, a cui ogni cittadino guarda come suprema garanzia della legalità costituzionale.
È nell’interesse della comunità nazionale che quei giudici siano, ed appaiano irreprensibili, indipendentemente dalle aree che li hanno espressi. Che è del resto quanto il popolo italiano ha diritto di pretendere da ciascun giudice della Repubblica.
Questo è il suggerimento, o se preferite la richiesta, che mi permetto di rivolgere alla mia associazione, e a tutti coloro che nella Costituzione vedono la ragione essenziale di essere parte di questa Repubblica.