L’Italia ha accumulato, solo l’anno scorso, ben 68 condanne per violazioni della Convenzione dei diritti dell’uomo. Sentenze pronunciate a Strasburgo dalla Corte europea chiamata appunto a tutelare i diritti delle persone nei 47 paesi sottoscrittori della Convenzione. Le più numerose condanne a carico dell’Italia sono per violazione della vita privata e per interferenza con la vita privata dei detenuti (27). Di poco inferiori (23) quelle per iniquità dei processi. Seguono la condanne (16) per violazione del diritto di proprietà. Di più e di peggio, l’Italia ha un più vergognoso primato: quello di essere, per spessore delle materie e numero delle condanne, il primo paese dell’Europa più sviluppata nella graduatoria delle condanne a Stati membri del Consiglio d’Europa e sottoscrittori della Convenzione. In testa ci sono Turchia (365 condanne), Russia (219), Romania (168), Ucraina (126), Grecia (75). Subito dopo l’Italia. E gli altri? La Francia ha subito 33 condanne, appena 21 la Germania, 18 l’Inghilterra, 17 la Spagna. Le più virtuose? La Danimarca e la Norvegia (3 a testa), i Paesi Bassi (4), la Svizzera (7).
Ricavo dati e sentenze da un corposo dossier curato dall’Osservatorio sulle sentenze della Corte, che fa capo all’Avvocatura della Camera dei deputati (Quaderno n. 6, appena èdito): una straordinaria, oggettiva rassegna di molte pessime condotte; rassegna che è possibile anche consultare liberamente (e stampare in pdf) sul sito www.camera.it.
Opera quindi tanto meritoria quanto imbarazzante per molteplici istituzioni, tenendo tra l’altro conto che della Corte fanno parte naturalmente giudici designati da tutti gli Stati membri in base ad altissimi livelli di scienza e competenza. Impossibile dar conto di tutte le sentenze, e persino superfluo per i non specialisti. Ne citeremo alcune, per il loro carattere emblematico o per la testimonianza di criticità istituzionale.
La prima si riferisce alla morte di Carlo Giuliani, il giovane che nel corso delle manifestazioni contro il G8 di Genova (luglio 2001) fu ammazzato a pistolettate dal carabiniere Placanica. Archiviato dal Gip il procedimento penale a carico di costui (legittima difesa, uso legittimo delle armi), la Procura non aveva strumenti per impugnare la decisione né la famiglia Giuliani per costituirsi parte civile. Da qui il ricorso alla Corte europea che ha ritenuto non sufficiente le ricerca della verità svolta nell’inchiesta penale seguita alla gravissima vicenda. Ma la colpa è stata e resta solo dei giudici?
Sempre sul tema del diritto alla vita vanno segnalate altre due sentenze. Anche qui una è scaturita da una vicenda clamorosa: il caso di Angelo Izzo (ergastolo per il massacro del Circeo, 1975) che nel 2004 aveva ottenuto la semilibertà da un giudice di sorveglianza e l’anno dopo aveva ammazzato moglie e figlia di un altro detenuto, Giovanni Maiorano, con cui aveva condiviso la cella. La famiglia Maiorano avevano cercato di far valere la responsabilità dei magistrati: il giudice e un procuratore.
Ma la sezione disciplinare del Csm non era andato oltre un modesto provvedimento disciplinare nei confronti dei due magistrati. Ricorso alla Corte di Strasburgo, ed ecco la severa censura: ci voleva una maggiore ponderazione nel valutare la richiesta di Izzo in considerazione della sua pericolosità sociale; e per giunta il procuratore aveva omesso di comunicare al giudice la ripresa delle attività criminali (ma non ancora il duplice delitto) dell’ergastolano. Insomma: lo Stato italiano non solo non ha adempiuto al dovere di protezione e diligenza ma non ha interamente adempiuto all’obbligo di stabilire le responsabilità dei suoi funzionari.
La seconda sentenza (“meritevole di attenzione”, sottolinea l’Osservatorio) è relativa al caso G.N. e altri. Talune persone affette da talassemia erano state contagiate da sangue infetto loro trasfuso: alcune avevano contratto il virus dell’immunodeficienza, altre l’epatite C. Tutte, tranne una, erano morte. L’unica sopravvissuta e gli eredi dei deceduti avevano ottenuto dal ministero della Sanità l’indennizzo per trasfusione infetta. Successivamente, e sulla base di quanto deciso per la prima serie di vittime, altri infettati avevano citato il ministero per ottenere anch’essi il risarcimento. Domanda respinta in tutti i gradi della giurisdizione. Quindi l’appello alla Corte degli esclusi e nuova censura da Strasburgo: violazione dell’obbligo di esiti tempestivi e soddisfacenti delle indagini giudiziarie sui contagi e sulle responsabilità.
Anche sul piano dei rapporti istituzionali c’è una sentenza che fa scuola e crea un importante precedente.
In seguito al crudele assassinio del giuslavorista Marco Biagi (Bologna, marzo 2002) da parte delle Br, Umberto Bossi aggredisce in una intervista l’allora segretario della Cgil Sergio Cofferati. Il deputato e ministro (allora come oggi) Bossi sostiene che “prima la sinistra ha creato il clima, poi qualcuno ha ammazzato [Biagi]”. Poi Cofferati è chiamato personalmente in causa: “E’ andato in giro per le fabbriche a raccontar balle, come quella che licenziano i lavoratori. Questo ha portato al terrorismo..”. Sentendosi accusato di esser quasi il mandante dell’omicidio, Cofferati cita in sede civile Bossi che, con coraggio leonino, fa appello all’insindacabilità parlamentare, e puntualmente alla Camera il centrodestra lo copre riconoscendogli l’immunità. Ma il tribunale di Roma èleva conflitto tra poteri: niente da fare, ché nel 2007 la Corte costituzionale dichiara inammissibile il conflitto. Così però la parte lesa viene a trovarsi nella situazione per cui la sua richiesta di risarcimento non è stata esaminata nel merito da alcun giudice. Cofferati ricorre alla Corte di Strasburgo che gli dà ragione. Nessun dubbio che l’immunità persegua un obiettivo legittimo, ma nel caso in cui non vi sia un “legame evidente” tra le frasi in contestazione e le funzioni parlamentari, la delibera della Camera assume le vesti di un mezzo tecnico sproporzionato e dunque illegittimamente lesivo del contro-diritto ad adire un giudice che esamini nel merito le ragioni di Cofferati.
Mancando un ricorso alla Grande Chambre (sede di appello), la sentenza della Corte fa – come si dice – giurisprudenza.
Ancora tre casi. Il primo riguarda la delicatissima materia del regime carcerario. Un cittadino della Bosnia-Erzegovina, tale Sulejmanovic, sconta una condanna a un anno e nove mesi nel carcere romano di Rebibbia. In un primo momento divide la cella con altri cinque reclusi: ciascuno può disporre di una superficie di 2,70 mq. Poi passa in altra cella: qui, con lui i detenuti sono quattro, 3,40 mq. a testa. Ricorso alla Corte di Strasburgo: la Convenzione (art. 3) proibisce l’uso della tortura, e precedenti pronunce della stessa Corte indicano in 7 mq. la superficie minima di cui un detenuto deve poter disporre. Quindi i giudici condannano lo Stato italiano: situazione di sovraffollamento talmente evidente da giustificare, da sola, la constatazione della violazione dell’art. 3, reclusione in meno di tre metri quadrati è trattamento inumano e degradante.
Il cittadino tunisino Ben Salah viene espulso dall’Italia dopo che, peraltro, un procedimento penale a suo carico (accuse di terrorismo) era finito in binario morto per l’insufficienza degli elementi a suo carico. Ricorso a Strasburgo e condanna del ministero dell’Interno in base al già menzionato art. 3: le assicurazioni date dalla Tunisia sul regime cui sarebbe stato sottoposto Ben Salah sono del tutto generiche e inadeguate, anche alla luce del fatto notorio che le autorità tunisine si mostrano poco trasparenti e poco collaborative con le organizzazioni internazionali di tutela dei diritti, dalla Croce rossa ad Amnesty a Human Rights Watch.
Infine altre due sentenze di condanna dell’Italia in materia di libertà di espressione, di insegnamento e di educazione.
La prima riguarda il prof. Luigi Lombardi Satriani si era visto negare, dopo anni di insegnamento, la conferma della cattedra di filosofia del diritto alla Cattolica di Milano in base ad un “parere” della Congregazione per l’educazione cattolica. Il prof ricorre, ma il Tar e il Consiglio di Stato respingono: la Congregazione è organo della santa sede, cioè di stato straniero, impossibile quindi valutare la legittimità del suo parere. Interviene allora, su ricorso, la Corte di Strasburgo, e ci va dura: la decisione della Cattolica costituisce una compressione della libertà di espressione sancita dall’art. 10 della Convenzione che ricomprende anche il diritto di trasmettere conoscenze senza restrizioni. Insomma, si tratta di una interferenza che, pur mirata allo scopo legittimo di tutelare l’interesse dell’università a ispirare l’insegnamento alla dottrina cattolica, non è stata ritenuta dalla Corte necessaria in una società democratica.
Ma quella che ha suscitato la sdegnata canea della destra è la sentenza con cui i giudici di Strasburgo hanno difeso il diritto della signora Lautsi, finlandese residente in Italia, ad ottenere la rimozione dal crocefisso dalle aule frequentate dai suoi due figli. Di fronte al rigetto della richiesta da parte del Tar e del Consiglio di Stato, Lautsi ricorre alla Corte europea dei diritti dell’uomo. E questa capovolge la situazione: vero è che la Convenzione riconosce il diritto di credere o non credere, ma la presenza del crocefisso nelle aule scolastiche, ben potendo essere interpretata dagli alunni di ogni età come un simbolo religioso, finisce per esercitare delle pressioni sulla libertà degli studenti, specie se in età formativa.
Come dire (la frase potrà apparire involuta, ma esprime bene il concetto-chiave) che l’esposizione del crocefisso è idonea a minare la libertà negativa di poter non aderire ad alcuna religione, ed è in contrasto con il pluralismo religioso. Apriti cielo: il governo italiano ha immediatamente dato ordine alla rappresentanza italiana a Strasburgo di appellarsi alla Grande Chambre. Chissà che cosa dirà, il 30 giugno.
Ciliegina sulla torta, la rivelazione appena fornita alla Camera dal deputato dell’Udc Lorenzo Ria: sono ben 2.471 le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo cui il nostro Paese non ha dato seguito, letteralmente ignorandole. La gran parte di queste sentenze esigeva ed esige una riparazione anche monetaria, mentre quarantacinque sono i cosiddetti leading cases, che impongono agli Stati modifiche legislative generali. Se per numero di condanne l’Italia è sesta in graduatoria, qui l’Italia è invece in testa nella graduatoria dei paesi con più alto numero – il 31% – di casi pendenti davanti a quel Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che è incaricato di monitorare l’effettiva attuazione delle sentenze della Corte di Strasburgo. Qui le parti sono capovolte: dietro l’Italia-primatista stanno persino Turchia e Russia.
In risposta a Ria, il ministro della Giustizia Alfano non ha smentito un solo dato, ma soprattutto non ha fatto il minimo riferimento alle 68 condanne dell’Italia da parte della Corte dei diritti dell’uomo, né alla questione, posta dall’interrogazione Ria delle 2.471 sentenze contro l’Italia pronunciate dalla stessa Corte e ignorate dallo Stato italiano: il ministro (o chi gli ha preparato la risposta) non è al corrente del contenzioso con Strasburgo, e non ha nemmeno letto il volume edito dall’Avvocatura della Camera dei deputati a documentazione della gravità dell’impiccio in cui s’è cacciata l’Italia?
Resta dunque tutto intero, nemmeno scalfito, il duplice dato politico dell’irresponsabile atteggiamento del governo.
Dapprima consentendo, con gravi e spesso ben notorii comportamenti dell’Italia e dei suoi organi (di polizia, giurisdizionali, amministrativi, politici), che la Corte europea di tutela dei diritti dell’uomo nei 47 paesi firmatari della Convenzione si pronunciasse migliaia di volte contro i comportamenti del nostro Paese. E successivamente non provvedendo mai ad applicare le sentenze di condanna o con adeguati risarcimenti alle vittime (da Carlo Giuliani agli extracomunitari, dal docente licenziato dalla Cattolica ai contagiati da sangue infetto, solo per citare alcuni dei casi-simbolo di cui abbiamo ampiamente riferito sabato) o modificando le leggi che hanno consentito plateali violazioni di elementari diritti umani.
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