Come reagire se la questione morale investe anche la magistratura

20 Luglio 2010

Può darsi che il richiamo alla loggia massonica P2 sia approssimato per eccesso rispetto alle vicende della cupola affaristica ormai giornalisticamente definita P3. Staremo a vedere, come è giusto, dove condurrà lo sviluppo dell’inchiesta. È certo, tuttavia— almeno per quanto può desumersi dalle intercettazioni e dagli altri atti di indagine finora resi noti— che l’attività della struttura associativa promossa da Flavio Carboni e dagli altri due faccendieri finiti con lui in carcere, per ordine della magistratura romana, non può ridursi all’innocuo passatempo di «quattro pensionati sfigati». Al contrario, dagli elementi oggi disponibili sembra emergere davvero la fisionomia— accreditata dalla impostazione accusatoria— di un «gruppo di potere occulto» che, attraverso la commissione di vari reati, corruzione compresa, mirava a «condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale» nonché di altri «apparati della pubblica amministrazione». Ne scaturisce un quadro di collusioni tra un certo mondo della politica ed un certo mondo del malaffare economico ed amministrativo, a dir poco sconvolgente. Non foss’altro per gli stretti legami interni di solidarietà e di connivenze illecite registrati tra i numerosi soggetti coinvolti — sempre secondo l’accusa — nonché per la capacità di alcuni di essi di intrattenere rapporti confidenziali e di esercitare disinvolte influenze (pur trattandosi di soggetti dediti a bassi traffici affaristici) nei confronti di personalità appartenenti al mondo delle pubbliche istituzioni. E, in questo quadro, uno degli aspetti più sconcertanti è costituito dalla presenza non casuale di alcuni magistrati, anche di elevato livello, e dalla posizione assunta dai medesimi sullo scenario delle pressioni e delle interferenze attuate verso altri magistrati, ovvero verso uomini politici, se non addirittura verso membri di altissimi organi posti ai vertici del nostro Stato. Al riguardo, due sono gli episodi più inquietanti emersi dalla trama delle indagini. Da un lato, i tentativi (vanamente) operati per influire sui giudici della Corte costituzionale che, all’inizio dello scorso ottobre, avrebbero dovuto pronunciarsi sulla legittimità del cosiddetto lodo Alfano, e ciò a seguito di un pranzo organizzato a casa di un noto esponente politico (quasi una replica meno nobile di una discussa cena svoltasi, poche settimane prima, nell’abitazione di un giudice costituzionale). Dall’altro, gli sforzi profusi per influire su diversi membri del Consiglio superiore della magistratura, in vista della votazione per la nomina del presidente della Corte di appello di Milano, a favore del giudice Alfonso Marra (poi effettivamente nominato). Ma, accanto a questi, non sono mancati altri episodi, nei quali risultano aver giocato un ruolo non secondario diversi magistrati, a loro volta fortemente condizionati (non si capisce perché) dai faccendieri della struttura facente capo a Flavio Carboni, ed evidentemente disposti a riceverne direttive, a rendere ed a procacciare servigi, per finalità e per interessi certamente non compatibili con il codice deontologico di un magistrato. Adesso alcuni di questi magistrati non appartengono più all’ordine giudiziario (per dimissioni o per pensionamento), mentre rispetto agli altri così coinvolti è stata aperta una indagine disciplinare da parte del procuratore generale presso la Corte di cassazione, e nei confronti del presidente della Corte d’appello milanese è stata anche avviata, presso il Csm, una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. Ciò significa che la magistratura ha reagito, attraverso gli strumenti offerti dal sistema, per fare pulizia e chiarezza al proprio interno, di fronte ad episodi che confermano l’esistenza— sia pure entro limiti circoscritti — di una concreta «questione morale», che non deve essere sottovalutata. Perché non c’è dubbio che certi rapporti di contiguità, certi giri di «avvicinamento», certe disponibilità ad assecondare intrecci tra interessi privati e funzione giudiziaria, non possono essere tollerati. Pulizia e chiarezza che, d’ora in poi, dovranno essere a maggior ragione assicurate ad ogni livello, ed attraverso ogni mezzo (al di là di eventuali profili penalistici), con grande serenità ed equilibrio, ma anche col necessario rigore, perché gli episodi che stanno affiorando sono più di un campanello d’allarme. Un allarme comunque grave, di fronte al rischio non teorico che certi magistrati (sedotti da indebite frequentazioni politiche o, peggio ancora, da tentazioni carrieristiche) possano abdicare alla propria fondamentale funzione di garanzia e di controllo della legalità, violando con ciò il dovere di essere, essi per primi, «soggetti soltanto alla legge».

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