La nostra via

05 Dic 2017

Tomaso Montanari

Qual è dunque il compito di un’associazione come Libertà e Giustizia?

Vorrei rileggere l’ultima parte del messaggio di Gustavo Zagrebelsky:

«Il futuro richiederà impegno rinnovato e non solo per dire di no. LeG è e deve restare una associazione di cultura politica che non pratica alcun collateralismo rispetto a partiti o movimenti. I suoi associati devono essere liberi di operare in politica secondo i propri orientamenti pratici, pur in conformità con gli ideali dell’Associazione alla quale aderiscono. LeG deve fornire idee ed elaborazioni e non limitarsi a protestare, a denunciare».

Provo a tradurre: LeG deve sforzarsi, ancora di più, di forgiare e mettere a disposizione di tutti, strumenti per esercitare la sovranità. Attraverso le nostre scuole: ma anche, come ha proposto Sandra, attraverso tanti seminari come questo, seppure in forma più piccola e diffusi in tutti i circoli.

Concludendo questa bella domenica, e prima di lasciare spazio alla festa per la Costituzione organizzata insieme ai nostri amici del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, vorrei indicare i quattro punti fondamentali intorno ai quali dovrà concentrarsi il nostro lavoro.

1.

Il primo è: alimentare la cultura del dissenso. La critica come fondamento del metodo democratico.

Non è facile in un Paese conformista come l’Italia fare come lo scrivano Bartleby di Melville, e rispondere al potere, piccolo o grande che sia, «preferirei di no».

Riflettiamoci: è esattamente questo ciò che è avvenuto il 4 dicembre.

Costruire e mettere in circolo anticorpi contro il conformismo, contro la mentalità dell’appartenenza, contro la malintesa ‘fedeltà’: ecco il nostro primo dovere.

E qua la lotta alla corruzione (che è uno dei compiti che LeG si è fin dall’inizio assunta) e la lotta per un nuovo modo di fare politica coincidono perfettamente.

Piercamillo Davigo ha raccontato che quando era all’inizio della sua carriera di conoscitore della corruzione si imbatté in un caso che lo fece soffrire, e lo sconcertò. Si trattava di un giovane impiegato, non bisognoso, che lavorava in un ufficio pubblico. E che era stato sorpreso a farsi corrompere con una mazzetta dalla cifra irrisoria. Di fronte a Davigo che gli chiedeva perché mai si fosse rovinato la vita per 250.000 lire, quel ragazzo gli rispose: «ma lei, dottore, non ha capito: il punto non sono i soldi, il punto è il sistema. Se io avessi detto no, sarei stato un lebbroso, un escluso, un morto». Già, perché in quell’ufficio come nella politica italiana, tutto si basava sulla fedeltà, sull’appartenenza, sulla complicità, sulla comune partecipazione al sistema. Sulla ricattabilità – come ha teorizzato con il consueto, plaudente, cinismo Giuliano Ferrara: se non sei ricattabile, non sei ‘affidabile’. Chi mai potrà impedirti di dire di no, al momento giusto?

Allora, il primo compito di Libertà e Giustizia e contribuire a formare italiane e italiani capaci di dire di no. Di non essere ‘affidabili’, di non essere ricattabili: capaci di essere fedeli, sì, ma solo alla Costituzione.

Diciamocelo chiaro: tutto questo significa tentare di scardinare il professionismo parlamentare. Nelle ultime settimane mi sono reso conto direttamente di quanto sia fondamentale conservare la libertà di dire di no: dire di no alle pressioni, alle promesse alle lusinghe del potere. Avrei potuto farlo con eguale forza e chiarezza, mi sono chiesto, se non avessi avuto un lavoro?

E se queste riflessioni vi paiono troppo strettamente legate alla situazione contingente, ebbene permettetemi di rispondere con alcune parole scritte da Piero Calamandrei nel luglio del 1956: «deputati e senatori sono diventati a poco a poco, anche senza volerlo, professionisti della politica: la politica, da munus publicum è diventata una professione privata, un impiego. Questo cambiamento ha segnato una svolta di tutto il sistema, lo ha snaturato, e rischia di distruggerlo: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego, l’attivismo politico diventa una carriera, non essere rieletti vuol dire perdere il pane. E le campagne elettorali diventano per molti candidati lotte contro la (propria) disoccupazione. I partiti da libere associazioni di volontari credenti si sono trasformati in eserciti inquadrati da uno stato maggiore di ufficiali e sottufficiali in servizio attivo permanente, nei quali a poco poco si intimidisce lo spirito dell’apostolo e si crea l’animo del subordinato, che aspira a entrare nelle grazie del superiore. L’elezione dipende dalla scelta dei candidati: la qual è fatta non dagli elettori, ma dei funzionari di partito. Ai parlamentari d’oggi per essere coerenti indipendenti, occorre una forza d’animo vicina all’eroismo: sanno che se non saranno riletti, si riaprirà per loro, in età matura, il problema dell’esistenza. Se è proprio vero che ormai il sistema parlamentare non può più fare a meno di questa sempre più invadente classe di professionisti della politica senza i quali partiti si sfasciano e le aule parlamentari restano deserte, vien fatto di domandarci se a questa mutazione di sostanza non sia necessario far corrispondere qualche ritocco giuridico del sistema».

Fin qui Calamandrei. Ora, io non so quale possa essere un rimedio istituzionale. Ma credo che il compito di LeG sia quello di formare cittadini che vogliano, caparbiamente e non importa quanto ingenuamente, disturbare i manovratori con un impegno pressante, tenace, fecondo.

Fare politica senza appartenere alla politica. Portare il punto di vista dei cittadini dentro il cuore del professionismo politico. Perché lottare contro la corruzione non vuol dire solo, cito Enrico Berlinguer, «porre fine al finanziamento occulto e alle ruberie, ma anche al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere».

La questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazione di questo presente non potrà che essere costruito da una «politica diversa». Non dobbiamo mai dimenticare che – sono parole di Benedetto Croce – «ciascuno di noi può contribuire, quotidianamente, nei più vari modi, a restaurare a rinsaldare a rendere più operoso e combattente l’amore della libertà, e senza pretendere, o attendere, l’assurdo – ossia che la politica cambi la natura sua – contrapporle una forza non politica che essa non può sopprimere mai radicalmente, perché rigermina sempre nuova nel petto dell’uomo, e con la quale dovrà sempre, per buona politica, fare i conti».

2.

Un secondo punto, strettamente legato al primo, è l’impegno costante per la trasparenza della politica. Per l’informazione, dunque: innanzitutto. Contro ogni monopolio, ogni conflitto di interesse, ogni censura. Ogni autocensura conformistica. Contro il giornalismo amico del potere.

Uno dei massimi problemi, uno dei sintomi e insieme delle cause, di questo male è infatti non solo la divisione, ma anche l’opposizione del discorso pubblico e del discorso privato. In un grottesco machiavellismo di maniera, nulla di ciò che si dice nel Palazzo è dicibile in pubblico: e viceversa.

Ripetere nelle chiuse stanze della politica professionistica ciò in cui gli stessi professionisti dicono di credere quando sono in televisione viene considerato una imperdonabile ingenuità. Ed è, simmetricamente, ritenuta una imperdonabile slealtà permettersi di dibattere in pubblico ciò che davvero agita il discorso dei potenti. Guai, insomma, a chi alza il sipario sul vero teatro della politica italiana.

Questo diaframma, questa parete invisibile, separa in modo drammatico e decisivo le aspettative del popolo e le decisioni dei potenti. Il discorso sul ‘programma’, sul progetto, sull’idea di Paese è una sorta di diversivo offerto dalla politica ai cittadini. Ma poi ciò che conta davvero è la tattica, la geometria delle posizioni. La lotta per il potere di gruppi che non sono i partiti: ormai esangui, debolissimi, incapaci financo di chiamarsi appunto ‘partiti’, e camuffati da movimenti con nomi fantasiosi e suggestivi. Nomi che coprono una distanza siderale dalle aspettative di coloro a cui ci si rivolge.

Pensiamoci un attimo: l’astensionismo di massa è la drammatica risposta di un Paese che non ha più voglia di parlare con la politica. I cittadini non credono più al discorso pubblico: perché sanno che poi a contare davvero è un discorso privato, per loro inascoltabile, irraggiungibile.

Il No del 4 dicembre è stato largamente motivato dalla presa di coscienza di massa della mendacità di Renzi: «noi non ti crediamo», abbiamo detto in venti milioni. Ma, siamo onesti, quel «non ti crediamo» non era rivolto solo contro Renzi: ma contro tutta la politica professionistica, chiusa in un linguaggio autoreferenziale che è espressamente pensato per nascondere, non per rivelare.

Allora, uno dei compiti fondamentali di Libertà e Giustizia deve essere quello di operare perché discorso pubblico e discorso privato tornino a coincidere.

Fare politica, fuori del Palazzo e dal basso: parlando un linguaggio diverso. Non un linguaggio di odio, e non un linguaggio di parole d’ordine facili: ma un discorso onesto, chiaro, pulito, trasparente.

Diciamo anche una cosa meno popolare. La non credibilità della politica conduce inevitabilmente i cittadini attivi, i militanti di base, alla paranoia del tradimento e dell’inciucio. In questi mesi – preso tra il cinismo spregiudicato degli apparati di partito e il sospetto distruttivo di molti militanti –   vi confesso che ho capito l’ingenuo ricorso al famoso ‘streaming’ degli albori dei 5 Stelle. Probabilmente non è quella la soluzione, ma non c’è dubbio che se vogliamo tornare a costruire, a proporre, anche solo a votare per qualcosa, è necessario ricostruire la possibilità di una fiducia. Anche di una fiducia nel compromesso: perché il compromesso non è l’inciucio. Abbiamo difeso con i denti una repubblica parlamentare, ci siamo opposti all’idea del capo e del vincitore che prende tutto. Abbiamo denunciato la retorica della governabilità ad ogni costo. Ebbene: in una repubblica parlamentare si deve saper costruire un accordo, anche tra diversi. A condizione che il discorso sia onesto, chiaro, senza trappole e senza inganni: e che qualcuno sia disposto a crederci, a fidarsi, a cedere sovranità.

Dobbiamo dire che siamo molto lontani da entrambi questi traguardi: alla cinica doppiezza di chi sta in alto corrisponde la mortifera disillusione di chi sta in basso.

Se, come ci invita a fare Zagrebelsky, dobbiamo non solo parlare ‘contro’, ma esporci ‘per’ è da qua che dobbiamo partire: dalla ricucitura tra discorso pubblico e discorso privato.

3.

 Il terzo punto al quale dobbiamo lavorare è cruciale: le regole.  Le regole del gioco.

Anche qua la mia esperienza politica per così dire diretta – in un progetto, quello del Brancaccio, che non aveva nulla a che fare con LeG se non, almeno lo spero, per lo ‘spirito’ di disinteressato servizio alla comunità – è stata molto istruttiva.

Non si riporteranno i cittadini italiani a votare alle politiche finché questi cittadini non capiranno che il loro voto conta davvero qualcosa.

Il 4 dicembre siamo andati a votare in tanti perché sapevamo che il nostro voto sarebbe stato decisivo.

Ma finché un Parlamento di nominati costruisce leggi elettorali che mettono tutto nelle mani dei capi dei partiti chi può davvero aver voglia di giocare?

E questa peste ha infettato in egual misura tutti i singoli partiti. Partiti-azienda, partiti del giglio magico, movimenti a controllo familiare con diritto di successione, coalizioni di partiti che organizzano cerimonie di investitura del capo e le chiamano assemblee sovrane… Ebbene quale spazio è, non dico offerto o costruito, ma almeno concesso ad una partecipazione dei cittadini che non si risolva in una plaudente acclamazione?

Se davvero vogliamo riuscire a riconciliare con l’idea stessa della rappresentanza parlamentare quel vasto mondo della cittadinanza attiva che ogni giorno rende migliore questo Paese, e che poi però non va nemmeno a votare, il punto cruciale è costruire regole trasparenti. E poi rispettarle.

Lo diciamo a tutti gli amici riuniti oggi a Roma nell’assemblea del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale: noi ci siamo. Per Libertà e Giustizia la battaglia sulla legge elettorale è una battaglia fondamentale.

Così come sono fondamentali la battaglia per le regole della partecipazione dei cittadini alla vita politica, e la grande questione della democrazia nei partiti e nei movimenti.

Naturalmente, in cima ai nostri pensieri sta la regola delle regole: la nostra amata Costituzione. È fin troppo evidente che all’orizzonte del dopo voto si affaccia un nuovo Patto del Nazareno finalizzato a ‘riformare’, cioè a deformare, la Carta.

Pochi giorni fa, qua alla Stazione Leopolda, il segretario del Pd è tornato a difendere le ragioni del Sì, dicendo che bisognerà ripartire dalle riforme costituzionali: ed è chiaro che si cercherà di imputare proprio alle regole lo stallo creato dall’incapacità e dalla disonestà degli attori della politica.

Libertà e Giustizia non ha mai dato indicazioni di voto, né mai le darà: ma è chiaro che nessuno di noi si sognerà di votare per i partiti che intendono usare il prossimo Parlamento di nominati per cambiare a maggioranza la Carta, magari sperando di aver i due terzi necessari per imbavagliare, stavolta, il popolo sovrano.

E credo che noi prossimi mesi dovremo avere la forza di indurre ogni partito a pronunciarsi sulle proprie intenzioni. Chi ha l’intenzione di utilizzare l’ennesimo Parlamento illegittimo per cambiare la Costituzione, dovrà essere indotto a dirlo mentre chiede i voti: e non dopo.

4.

Il quarto e ultimo punto riguarda proprio la Costituzione.

Non ci basta difenderla: vogliamo attuarla.

Io credo che Libertà e Giustizia dovrà concretamente impegnarsi per proporre, in concreto, come farlo.

Dovremo essere capaci di produrre idee, progetti, proposte di legge se necessario, capaci di attuare il progetto della Costituzione: che si tratti dei principi fondamentali (per esempio il 10, sull’accoglienza dei migranti), del diritto fondamentale alla salute dell’articolo 32 o della progressività fiscale dell’articolo 53.

Libertà e Giustizia si impegna a costruire questa proposta, e a metterla a disposizione di tutte le forze politiche: così che non si possa dire che questa «polemica contro lo stato delle cose» (così Calamandrei chiamava la Costituzione) è inattuabile!

Dobbiamo essere assidui, tenaci: financo importuni. Perché se la lasciamo, inerte, sui nostri tavoli la Costituzione è solo un pezzo di carta.

Dunque: la costruzione della critica e del dissenso; la riconciliazione tra discorso pubblico e discorso privato; la battaglia per le regole; l’attuazione della Costituzione.

Ecco, è questa la nostra via: una via che punta a un solo obiettivo: riconciliare la politica con realtà. Per cambiare la realtà.

Vorrei concludere leggendovi una pagina di uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, uno dei grandi scrittori italiani del Novecento. Quando uscì il suo Cristo si è fermato a Eboli – scritto qua a Firenze, in Piazza Pitti, e anticipato sul “Ponte” di Calamandrei ­– tutta Montecitorio non parlò d’altro, per giorni. Quando la politica, ancora impastata della Resistenza, era una cosa sola con la cultura, e vibrava in sintonia con l’anima del Paese.

Ebbene, in un altro libro – l’Orologio – dedicato alla crisi del governo Parri, il governo della Resistenza, Carlo Levi sa descrivere la differenza che corre tra la politica autoreferenziale della tattica e dei giochi astratti ed equilibristici di Palazzo e una politica che rifaccia scorrere il sangue nelle vene.

Eccone un passo: i due giovani politici, dice il protagonista, «mi esponevano i loro progetti, i passi che avevano fatto, le manovre a cui ci si doveva opporre, le intenzioni nascoste dei capi, gli interessi che si celavano sotto le manovre: e tutto questo mi pareva che si svolgesse in quel cielo nel quale anch’io forse talvolta mi illudevo di trovarmi, popolato di strani uccelli, in lotta tra loro, nell’atmosfera solitaria … Da quell’altezza essi non vedevano la terra che come un fumo lontano: e come avrebbero potuto distinguere in quel fumo, a quella distanza, i visi degli uomini e delle donne che si muovevano nelle città, che zappavano i campi, che lavoravano negli uffici e nelle fabbriche, che si disputavano il denaro, che mangiavano, che facevano all’amore? Come avrebbero potuto, di lassù, vedere la faccia di Teresa, dietro il suo banco, sull’angolo della strada; e i geloni della sue mani al primo freddo dell’inverno?

Il presidente, invece, il presidente caduto non volava in quel cielo: non voltava neppure gli occhi a guardarlo, ma camminava sulla piccola terra. E non sapeva né voleva vedere altro che i geloni di Teresa, il viso di Teresa. E le facce le mani di tutti quelli che incontrava sulla sua strada. E si fermava a parlare con loro, dimenticando ogni altra cosa, piangendo le loro lacrime. Che cosa si poteva fare? Come si potevano mettere insieme cose così disparate: gli uccelli, il presidente e Teresa? Come si sarebbe potuto risolvere quella crisi, che era assai più che un cambiamento di ministero ma il segno della presenza di cose senza comunicazione, di tempi diversi e reciprocamente incomprensibili. Mi veniva in mente il libro di aritmetica delle scuole elementari che affermava (ma questa affermazione né allora quando ero bambino né poi mi riuscì mai del tutto persuasiva) che non si possono sommare beni di diversa natura, che non si può dire per esempio cinque pagnotte di pane più tre rose fanno che cosa? Non fanno niente, secondo questo venerabile testo. Eppure c’era stato un momento in cui gli uomini si erano sentiti tutti uniti fra di loro, e col mondo. Quel momento non era finito del tutto: continuava nella gente che imparava a vivere negli errori e nei dolori, e che frugava tra le macerie sapendo di esistere».

Nel piccolissimo della nostra generazione, la battaglia referendaria per la Costituzione ha saputo rimettere insieme la politica con le cose. La politica con le persone e con la loro vita. L’ha fatta scendere dal cielo delle manovre di palazzo e l’ha rimessa per qualche mese sulle strade in cui camminano i cittadini di questo Paese.

Ecco, noi di Libertà e Giustizia vogliamo tenerle insieme, la politica e la vita. E ce la metteremo davvero tutta.

(*) Intervento conclusivo del presidente, Tomaso Montanari, al seminario di Libertà e Giustizia a Firenze, 3 dicembre 2017

 

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