Il regno mafioso in una capitale corrotta

23 Ago 2015

Per cercare di comprendere ragioni e moventi dell’ignominia pubblica celebrata con il fastoso funerale del piccolo Padrino dei Casamonica occorre mettere da parte ogni naturale moto di indignazione. Serve una chiave di lettura, c’è bisogno di una teoria.

Per cercare di comprendere ragioni e moventi dell’ignominia pubblica celebrata con il fastoso funerale del piccolo Padrino dei Casamonica occorre mettere da parte ogni naturale moto di indignazione. Serve una chiave di lettura, c’è bisogno di una teoria. Un altro Re della complessa geo-politica criminale di Roma, il boss nero Massimo Carminati, questa teoria l’ha elaborata ed enunciata con rigore quasi scientifico in una celebre intercettazione: “è la teoria del mondo di mezzo compà. ….ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo… si incontrano tutti là no?.. tu stai lì…ma non per una questione di ceto… per una questione di merito, no? …allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno”. Nel mondo di sotto prosperano per l’appunto soggetti come il boss Vittorio Casamonica, ora anagraficamente deceduto e dunque pronto a conquistare il Paradiso proprio come ha conquistato Roma – così recitava uno striscione affisso sulla facciata della chiesa – ma già affiliato quand’era vivente a  quel “mondo dei morti”, il sottobosco criminale dal quale i colletti bianchi del “sovramondo” possono attingere all’occorrenza. Accompagnano il boss, a popolare quell’universo sotterraneo, gli oltre mille componenti del suo clan, ramificati in un mosaico di famiglie imparentate tra loro, invisibili al fisco nonostante lo sfarzo hollywoodiano di residenze e parco macchine, inviolabili alla giustizia nonostante le ripetute inchieste giudiziarie – tanti blitz che ne hanno a malapena intaccato il patrimonio milionario, senza incidere sulla loro autorità criminale. Un potere che si fonda su un amalgama di inviolabili solidarietà familiari e omertà di clan, che rendono inconcepibile qualsiasi forma di collaborazione con la giustizia, e capacità imprenditoriali affinate nel corso di decenni attraverso la gestione in un’area via via più estesa della capitale di alcune “nicchie” di attività illecite e criminali: usura, recupero crediti, frodi, truffe, furti, spaccio, racket. A fare da ulteriore collante il substrato culturale mai rinnegato, anzi rivendicato con orgoglio, di un clan sinti che nello sfarzo ostentato di feste e cerimonie celebra pubblicamente il proprio arricchimento, così come lo sfoggio strumentale dell’iconografia religiosa vale ad esibire la propria forza e a comprare – anzi, conquistare –  l’indulgenza divina per i propri affiliati. Perché sopravvivere e prosperare nell’insidioso terreno criminale non è tanto “una questione di ceto” – ci insegna la teoria di Carminati – ma “una questione di merito”. E uno degli aspetti del piccolo romanzo criminale narrato dalla storia dei Casamonica è il loro indiscusso talento nell’acquisire e affinare col tempo competenze utili a ridurre i rischi nella gestione di alcuni tipi di operazioni illegali. Nelle inchieste giudiziarie, ad esempio, emerge che dagli albori i Casamonica praticano con perizia l’arte dell’intimidazione violenta, senza però ricorrere alle armi – se proprio occorre, a questo scopo si assolda manovalanza straniera. Trionfa invece la pratica del pestaggio, tradotta anche a livello sportivo: alcuni esponenti della famiglia si sono affermati come pugili, per poi a fine carriera applicarsi con analoga passione nel percuotere malcapitati. Questo modus operandi conserva un forte potere deterrente su un’estesa platea di vittime e “clienti” dei servizi offerti dai membri del clan – debitori morosi, piccoli spacciatori, etc. – ma nel contempo abbatte, fin quasi ad azzerarlo, il rischio di denunce o di gravi condanne, cui vanno incontro invece gli autori di sparatorie ed omicidi. Forte di questa apparente debolezza, il clan Casamonica è stato indotto per necessità a ritagliarsi uno spazio residuale e un ruolo a lungo “servente” rispetto ad altre organizzazioni criminali, dalla banda della  Magliana fino a “mafia capitale”, che invece non disdegnano l’utilizzo o la minaccia delle armi. Contro di esse, infatti, il clan Casamonica sarebbe stato presumibilmente soccombente in caso di conflitto aperto, almeno nell’immediato. Ma quale organizzazione criminale vorrebbe inimicarsi un reticolo delinquenziale così coeso, ramificato e radicato sul territorio come quello dei Casamonica? Meglio l’alleanza, la pacifica suddivisione per zone d’influenza, la ripartizione di ruoli e mercati illegali in un oligopolio occulto che nella capitale ha regolato le attività criminali del “mondo di sotto” per gli ultimi decenni. E quando – come accade proprio in questi mesi, dopo gli arresti di mafia capitale –  altri gruppi criminali si eclissano sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, ai Casamonica si spalancano nuovi territori per espandere il proprio raggio d’influenza, nell’osmosi che caratterizza i confini tra i diversi mercati illeciti. Protestano i parenti del boss defunto: “Dicono che era un boss, ma la mafia è tutta un’altra cosa… Perché i politici parlano e infangano il nome dei Casamonica? I politici cosa vogliono dai Casamonica? … La mafia è dentro la politica”. Davvero la mafia è un’altra cosa? No, quella descritta dai nipoti del boss defunto per onorarne la memoria è attività mafiosa per eccellenza: “Era come il Papa. Era il capo della famiglia. Decideva sui figli e sui nipoti, risolveva litigi. Era il vertice per le sue capacità”. Nei gruppi criminali vi è una grande varietà nell’utilizzo di simbologie, “marchi” di riconoscibilità, forme di organizzazione interna,  frequenza ed efficacia del ricorso alla deterrenza violenta, ma il ruolo del boss mafioso, analogo a quello di un Totò Riina o di un Bernardo Provenzano, è precisamente questo: prevenire o appianare dispute e attriti, soprattutto quelli che investono la delicata sfera degli affari e degli scambi illeciti, proteggere aspettative e interessi di chi si è affidato alla loro giurisdizione, ad esempio assicurando la restituzione delle rate promesse agli usurai, il pagamento delle partite di droga, la ripartizione dei proventi di truffe e altri “impicci”. E per questa via garantire ordine e prevedibilità a quei traffici criminali, regolandone l’esercizio, i criteri di accesso, la distribuzione degli utili. Per svolgere in modo credibile questa funzione, prettamente mafiosa , i membri del clan devono occasionalmente resuscitare dal “mondo dei morti” per incontrarsi, nella “terra di mezzo”, con chiunque domandi i loro servizi. Inoltre, essi hanno tutto l’interesse a rinsaldare nei potenziali clienti, oltre che in una popolazione soggiogata o rassegnata, la propria reputazione di potenza, manifestando la capacità di intimidire rivali e di controllare il territorio, e convincere così gli interlocutori della loro invulnerabilità alle leggi dello Stato – nonché, tramite l’intercessione di una Chiesa distratta o connivente, a quelle divine. A questo fine può servire anche lo sfarzo pacchiano delle esequie del boss Casamonica, fosse pure a costo di richiamare l’attenzione dei media, o di richiedere una scorta di vigili e carabinieri per l’interminabile corteo funebre. Ed è indispensabile infine contare sulla latitanza dello Stato, ovvero sull’intercessione dei suoi rappresentanti complici o a libro paga. Il penosissimo rimpallarsi di responsabilità tra Questura, Prefettura, Municipio, forze dell’ordine per il fallimento dell’elementare vigilanza pubblica che avrebbe dovuto prevenire la celebrazione in pompa magna dei funerali para-mafiosi, accompagnati dalle musiche de Il Padrino e da un lancio di petali dal cielo, dimostra che le organizzazioni criminali prosperano soltanto dove lo Stato è assente, sbadato, incapace, o – nel peggiore dei casi – complice e corrotto. Proprio come quei politici e funzionari, presto a processo, che facevano la fila davanti ai boss di mafia capitale per elemosinare tangenti, contributi elettorali, pacchetti di voti, posti di lavoro per parenti e sodali. Adesso quei mafiosi sono in carcere, ma restano gli appetiti suscitati dai profitti illeciti nel business degli appalti, delle licenze e delle concessioni, delle emergenze infinite – immigrati, campi nomadi, casa, rifiuti…. E’ forse questo genere di servizi e di prebende che qualcuno si aspetta di ottenere comprandosi la benevolenza dei nuovi boss del clan Casamonica in lutto?

Alberto Vannucci è presidente di LeG

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