In ricordo di Giuseppe D’Avanzo

29 Ago 2011

La testimonianza di Giovanna Corrias Lucente che ricorda il grande editorialista di Repubblica da poco scomparso. Le loro vite professionali si incrociarono trent’anni fa: quando Giovanna, giovane avvocato, difese D’Avanzo in uno dei suoi primi processi

Caro Peppino,
Le nostre vite professionali si sono incrociate circa trent’anni fa, quando giovane avvocato ti difesi dal primo o da uno dei primi processi. Poi abbiamo mantenuto frammentari rapporti, sempre per le tue difese, maturando professionalmente a distanza. Tu avevi ora raggiunto la vetta del giornalismo di commento ed inchiesta, rappresentavi una figura rara nel panorama della stampa italiana.
Vedo, però, che, anche se ho poco da dire e più da sentire, il silenzio non mi giova. La tua presenza è viva e voglio che lo resti.
Peppe, mi dicono che mentre andavi in bicicletta godendoti una gita con i tuoi amici, hai chiamato “Attilio”, ti ha visto con le braccia alzate al cielo e poi sei caduto. Il frequenzimetro era a zero.
Non so se sia vero, non voglio disturbare nessuno per sapere dettagli, la mia riservatezza mi tiene ai margini della tua morte che  mi ha lasciato un gran vuoto.
Proprio a luglio ti avevo chiamato per invitarti a cena con un gruppo di amici, il tuo. Era stata una telefonata breve, ma era come se non ci fossimo mai persi di vista.
Ora le mattine vado ancora a cercare i tuoi articoli, per un’inveterata abitudine. E’ come se mi avessero rubato qualcosa e la cercassi ancora al suo posto.
Non posso che immaginare il dolore di Marina, ho visto quello non esibito di Claudio con cui dividevi una casa a Capri e penso ai tanti altri che avevano il privilegio di vederti spesso e ora portano il peso della tua assenza.
Mi vengono in mente ricordi lontani, della nostra giovinezza, con il giornale, la prima difesa negli anni ’80, resa difficile perché  tu ancora non mi mandavi i documenti. Poi tanti altri processi, tutti vinti, non per le mie capacità; perché il tuo profilo di giornalista si era raffinato. Ad ogni tua parola corrispondeva un documento o una testimonianza e articoli che, a prima vista potevano apparire azzardati, si dimostravano frutto di inchieste certine, corredate da seri riscontri.
Eri diventato e resti una figura insostituibile nella stampa italiana. Non ho mai letto niente di scontato o banale. Lavoravi con  precisione ad inchieste complesse, raggiungendo sempre un risultato: le tue notizie, mole di informazioni e dati tutti sommati con geometrica precisione.
Ti ho chiesto di essere interrogato due volte soltanto per colmare con il tuo sapere qualche iato indiziario. Sei venuto a Piazzale Clodio,  sei stato l’avvocato di te stesso, non dovevo guidarti o orientarti. Coglievi il punto, come negli articoli, e procedevi alla dimostrazione.
Non ti preoccupavi troppo dei processi; sapevi che con i limiti che toccavano le tue inchieste erano una conseguenza naturale: di chi voleva oscurare la verità, di chi pensava di intimorirti ricorrendo alla giustizia, in cui tu però esercitavi il tuo diritto, sentito come dovere, di informare. Tante volte sei arrivato alla meta dove nessuno aveva cominciato neanche il percorso. Ti stagliavi tra molti colleghi che rimpastavano notizie o gossip, con una serietà tua propria, con regole morali tue alle quali rispondevi severamente. Eri diventato una personalità unica del giornalismo italiano.
Ci hai, mi hai, fatto conoscere e capire molte realtà che, senza il tuo lavoro, sarebbero rimaste nascoste. Ed in aula dovevamo dimostrare che non erano invenzioni offensive. Per questo ti assistevo con passione e sostenevo con forza le tue ragioni.
Un giorno, per controllare alcune carte, venni a trovarti a Piazza Indipendenza e mi meravigliai ingenuamente che tu avessi il Manuale di Procedura Penale di Cordero nella biblioteca. Era lontano il tempo in cui Cordero avrebbe scritto per Repubblica. Per me era un mito dall’università e collezionavo e rileggevo i suoi libri. In un lampo capii che era naturale che tu avessi quel volume. La tua prosa, seppur più semplice e diretta, era viva di frasi immaginifiche, il tuo ragionare procedeva ineccepibile da una premessa alla conclusione e, soprattutto, il sostegno di principi retrostanti. Il tuo retroterra culturale era quello e tanto altro ancora.
Giuseppe auspico che la memoria del tuo lavoro e della tua persona non si perda nella dissolvenza di quest’era del consumo fast, di edonismo sfrenato, ma resti stagliato in tutti il tuo ricordo, come un esempio da seguire. Soprattutto per i giovani che vivranno del riflesso dei nostri racconti e spero potranno per questo leggerti.
Infine, mi ha colpito quel gesto – e non so se sia vero – alzare le braccia al cielo in un grido. Sei stato un combattente e non credo fosse una resa, anche se ciascuno di noi deve imparare che il destino è più forte e ci beffa quasi ad ogni istante. Per i ciclisti è il gesto della vittoria raggiunto il traguardo, ma sono certa che il tuo ciclo non era compiuto avevi ancora molto da dire e meritavi altre gioie, altro tempo.
Mi lasci con un mistero, forse l’unico segno di una reazione puramente fisica al dolore fulminante che ti ha colpito, diffondendosi tra quelli che ti amano, ti vogliono bene, ti stimano e persino tra i tuoi detrattori.
Non c’è stata e non ci sarà più un’amichevole cena di luglio. Ma rabbrividisco se penso alla sofferenza di chi ti era quotidianamente vicino.

* L’autrice è avvocato e socia storica di LeG

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