L’ampiezza della mobilitazione spontanea attorno alle diverse flottiglie che stanno cercando di superare il blocco navale illegale imposto alla Striscia di Gaza per portare aiuti alla popolazione civile ed aprire corridoi umanitari, esprime una consapevolezza collettiva più ampia. Lo sterminio del popolo palestinese, tollerato o agevolato per troppo tempo dalla comunità internazionale, fa parte di un processo degenerativo dei rapporti politici, economici e sociali in corso da anni nei paesi occidentali, con l’avanzata di partiti populisti e nazionalisti che in nome del suprematismo e della discriminazione istituzionale stanno abbattendo le garanzie di libertà e pace su cui si sono edificate, dopo la Seconda guerra mondiale, le Costituzioni delle democrazie liberali e le Convenzioni internazionali a difesa dei diritti umani. L’avvento del presidente Donald Trump negli Stati Uniti e l’attivismo dei suoi epigoni in Europa, con l’innovazione tecnologica che ne rafforza i poteri, segna un punto di svolta.
Il blocco navale davanti alle coste di Gaza, reso ancora più evidente dalle intercettazioni in alto mare operate dalle Forze armate israeliane, costituisce una ennesima e gravissima violazione del diritto internazionale. In presenza di una deportazione forzata della popolazione civile e di un genocidio attuato anche per fame e mancanza di cure mediche, con un sostanziale impedimento alla distribuzione degli aiuti in quella che viene considerata “zona di guerra”, cadono tutti i presupposti che potrebbero giustificare il blocco navale. Dopo la Seconda guerra mondiale, in nessuna parte del mondo “occidentale” uno Stato sostenuto da una grande potenza come gli Stati Uniti ha commesso violazioni tanto evidenti, e tuttavia tollerate dalla comunità internazionale, compresi, al di là delle condanne di facciata, molti paesi arabi.
La Palestina è così diventata l’epicentro di un nuovo ordine globale che ha cancellato le regole del diritto umanitario e i principi dello Stato di diritto, con la delegittimazione della giurisdizione interna e della giustizia internazionale.
I milioni di persone che nel mondo e in Italia scendono in piazza per difendere il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, difendono anche le residue possibilità di vivere in democrazia e nel rispetto dello Stato di diritto, attaccato da nazionalismi e populismi, e di ridurre i rischi di una guerra totale, oggi sempre più vicina.
È evidente come lo schiacciamento su politiche di guerra comporti un trasferimento di risorse dallo Stato sociale all’economia bellica, con un aumento delle povertà e del divario di ricchezza all’interno del corpo sociale. Vediamo già oggi una progressiva forzatura per decreto delle garanzie democratiche da parte dei governi per contrastare le manifestazioni di dissenso, che procede anche attraverso i tentativi di controllo degli organi giurisdizionali e la limitazione della libertà di informazione. In un quadro tanto complesso e conflittuale non si possono escludere provocazioni e infiltrazioni. Non sarà certo la scontata strumentalizzazione di singoli episodi di scontro che potrà spegnere un gigantesco impegno costituente, assolutamente pacifico, mirato a nuove solidarietà internazionali e alla difesa dei diritti fondamentali della persona.
La giurisdizione nazionale, come del resto le Corti internazionali, non hanno finora sanzionato le gravissime violazioni commesse dalle autorità israeliane nei territori palestinesi sotto occupazione. Come non si è fatta giustizia sui crimini commessi contro il popolo migrante. La denuncia pubblica delle responsabilità e delle complicità, che oggi occorre sostenere attraverso la comunicazione e la partecipazione, contro ogni forma di indifferenza e di astensionismo, dovrà avere la stessa forza di una condanna in sede giurisdizionale, almeno sotto il profilo del ritorno al principio di realtà. Solo in questo modo si potranno battere le dichiarazioni ipocrite o mendaci diffuse sul genocidio e sulla pulizia etnica in Palestina, e le politiche basate sul ricorso alla guerra e all’autoritarismo per regolamentare la distribuzione delle risorse su scala globale e a livello nazionale. Occorre una resistenza permanente per scardinare l’ineluttabilità della repressione interna e dei conflitti armati, strumento, e non solo conseguenza, di un nuovo (dis)ordine globale.

