Forse è davvero finita un´epoca, per l´anomala destra italiana nata  dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del  populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini  varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale  può costruire finalmente un´”altra destra”. Compiutamente democratica e  liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie  conservatrici europee. Era enorme l´attesa per questo rientro in campo del presidente della  Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in  silenzio l´assalto del “Giornale”. Quella di Fini, stavolta, è davvero  una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della  politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura  berlusconiana.
Con un discorso di un´ora e mezzo, degno per toni e  per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di  corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che  ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali  hanno pesato. La “macchina del fango” messa in moto a Montecarlo dai  giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito  sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente  della Camera. Quei “Tg ridotti a fotocopie dei fogli d´ordine del Pdl”,  quelle “campagne paranoiche e patetiche”, quegli “atti di lapidazione  islamica” e quegli “atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia  famiglia”: era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana  covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse  solo in una inesorabile denuncia dell´aggressione subita, ma alla fine  sfociasse anche nell´inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza  politica nel Pdl.
Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la  rottura politica. Nell´elenco puntiglioso dei motivi che in questi due  anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore  non  c´è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe  costituire l´essenza di un vero “partito liberale di massa”. C´è invece  la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più  conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana.  Dall´idea malintesa della “riforma della giustizia” fatta nell´interesse  di un singolo e del garantismo come “impunità permanente”, coltivata da  chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere “meno uguale”  degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli  organi di garanzia, esercitato da chi usa “il Parlamento come dependance  dell´esecutivo”. Dalla mancata difesa dei diritti degli  “extracomunitari onesti”, praticata da chi declina l´immigrazione come  pura “guerra ai clandestini”, alla mancata difesa dei veri valori  dell´Occidente, svenduti per bieca “realpolitik” nella “genuflessione”  di fronte a Gheddafi. Nell´aspra requisitoria finiana su ciò che è  accaduto nel Pdl in questi mesi, non c´è conflittualità “congiunturale”  che non nasconda anche un´evidente incompatibilità culturale.
E  questo non vale soltanto per la “cifra” identitaria delle due anime che  in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per  l´azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i  punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le  “proteste sacrosante” delle forze dell´ordine e dei precari della scuola  al ridicolo “ghe pensi mi” col quale si è creduto di riempire il vuoto  al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come “favore a  Bossi” alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme  anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera  non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il  dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché  Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da  almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell´incredibile direzione del 22  aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo  scontro “fisico” tra i due. E cioè che si sente ormai “altro” da questo  Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a “contorno del leader”, a “coro di  plaudenti” o a “popolo di sudditi”. Ha fatto regredire a rozzo “partito  del predellino”, o a versione scadente di “Forza Italia allargata a  qualche ex colonnello di An” pronto a servire qualunque generale.
Dunque,  quando il leader di Futuro e Libertà dice che “il Pdl è morto il 29  luglio”, con quell´atto autoritario di marca “staliniana” con il quale  il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre  la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è  solo l´epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l´atto  fondativo di un nuovo corso. Non c´è ancora l´annuncio ufficiale della  nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora  continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c´è già il manifesto  di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un  partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare  il suo Pantheon e a risalire all´Msi di Giorgio Almirante, che Fini non  esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno  “sdoganamento” repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai  più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare  definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la  “rivolta di Mirabello” del 2010 con la “svolta di Fiuggi” del 1995. Come  se il Cavaliere – in questi quindici anni di “traghettamento” dell´ex  Movimento sociale, dalle “fogne” di un tempo alle alte cariche  istituzionali di oggi – fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma  ormai chiusa per sempre.
Il presidente della Camera ha cercato in  tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare  Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. “Né ribaltoni, né  cambi di campo”, quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al  Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe “un  fallimento  per tutti noi”) né sulla minaccia di elezioni anticipate  (che è solo “avventurismo politico”). Non solo: il presidente della  Camera ha offerto al premier un “patto di legislatura”, per far fare a  questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non  è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un  equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su “un  tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi”, dove i parlamentari non sono  in vendita “come i clienti della Standa” e dove le grandi riforme “in  nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l´opposizione”. Persino  sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda  estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un  provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e  gli garantisca “il diritto di governare” senza fare strage dei processi  che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.
Ma  è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili.  Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe  accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c´è più, e che  “non si rientra in una cosa che non c´è più”, allora è ancora più vero  che non c´è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13  aprile di due anni fa. Ancora una volta, la previsione più sensata  l´aveva fatta quell´animale politico che risponde al nome di Bossi:  “Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il  Cavaliere sarà un premier dimezzato…”. Il Senatur è stato fin troppo  ottimista. Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio  sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e  azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui  ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello  Stato. E´ un rischio mortale. Il “pifferaio di Arcore” ha smesso di  ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po´ meno anche gli  italiani.
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