Riforme costituzionali: non è tutto oro quel che luccica

14 Novembre 2025

Antonio D'Andrea Docente diritto costituzionale e pubblico

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Con la scissione del Csm, e cioè spaccando l’unitarietà dell’organo di autogoverno dei giudici, la riforma colpisce nel principio costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere.

1. Le “piccole” riforme e il rischio di banalizzazione del dettato costituzionale

Quando si dice che le riforme costituzionali andrebbero discusse e approvate “una ad una”, volendo stigmatizzare quelle modificazioni palingenetiche che finiscono per variare una congerie di norme vigenti aventi per oggetto materie differenti e slegate tra loro (come accaduto nel 2006 e nel 2016: la “grande riforma” berlusconiana nel primo caso e, nel secondo, quella renziana e, se si vuole, già nel 2001 con la modifica di un intero Titolo della Seconda Parte, in tema di rafforzamento dell’autonomia regionale), si dice una cosa non solo sensata, ma anche adeguata al corretto funzionamento dell’ordinamento. 

È in effetti notorio che la Costituzione, salvo i principi supremi che restano non modificabili (il che ovviamente apre il grande tema di quali siano e di come farli valere una volta che si sia pur tuttavia giunti alla loro revisione), può essere legittimamente emendata con procedure “aggravate” e che, una volta modificata la/e disposizione/i, è ben possibile attivare un referendum popolare, senza quorum partecipativo, ove la seconda approvazione parlamentare non raggiunga una maggioranza molto ampia (2/3 in entrambe le Camere). Il che, perché accada, presupporrebbe inevitabilmente il coinvolgimento anche di gruppi che si collocano all’opposizione dell’ordinaria maggioranza che sostiene il Governo, sebbene si assista a bizzarre e demagogiche richieste di “conferma referendaria” da parte dei gruppi parlamentari favorevoli alla riforma che si sommano a quelle, evidentemente più logiche, di segno “oppositivo” provenienti da chi nelle Camere ha osteggiato l’innovazione costituzionale. Non fosse altro che per consentire un voto davvero consapevole da parte dei cittadini, ove richiesti di intervenire nella consultazione popolare per decidere con un “sì” o con un “no” sull’entrata in vigore della riforma deliberata “a maggioranza”, i testi di modifica dovrebbero essere “compatti” e con un oggetto definito. Sono note a tal proposito le polemiche seguite, specie in occasione del voto sulla riforma della Seconda Parte promossa dal Governo Renzi, al possibile “spacchettamento” del quesito che non portò ad alcun esito concreto. Dunque, è bene aver intrapreso da qualche tempo la strada delle modificazioni costituzionali per punti specifici (a partire dalle modifiche introdotte nel 2020, per la riduzione del numero dei parlamentari, nel 2021, per l’estensione dell’elettorato ai diciottenni per l’elezione del Senato, e nel 2022, in materia di tutela dell’ambiente), come credo si possa affermare anche in questa ultima circostanza che ha riguardato la c.d. riforma della giustizia promossa con determinazione dal Governo Meloni e dal Guardasigilli Nordio, sulla quale tuttavia il corpo elettorale tornerà ad avere l’ultima parola con la consultazione referendaria la prossima primavera, già preannunciata e non solo dalle opposizioni parlamentari che non hanno condiviso la riforma. Meno bene, semmai, il fatto di aver ancora una volta divaricato in modo inconciliabile la posizione della maggioranza da quella delle opposizioni e che sia stato proprio il Governo, in perfetta solitudine, a farsi promotore di un mutamento del quadro costituzionale vigente che, come nel recente passato (addirittura su di un terreno ancora più ampio, come quello sopra evocato) è destinato a produrre uno scontro frontale nel quale il tema referendario finirà per assumere una valenza strettamente politica, potenzialmente capace di segnare la sorte dell’Esecutivo. Vedremo se sarà così anche questa volta.

Resta, sullo sfondo, vivo il tema della banalizzazione della Costituzione ricorrente anche quando si propongono e approvano riforme puntuali delle disposizioni vigenti. Nel senso che, qualche volta, l’intervento “minimalista” sembra corrispondere più che ad una modifica che sottintende un’aggiornata versione dei principi esistenti ovvero il loro superamento con altre prospettive programmatiche (in modo da rendere possibili indirizzi politici prima preclusi) ad una semplice accentuazione di qualche carattere che già troviamo nelle norme vigenti. Il che può essere, almeno ritengo, persino opportuno quando vi fossero “controspinte” che possono vanificare o paralizzare certe forme di attuazione dei principi costituzionali che, dunque, risultano poco utilizzabili in certe direzioni senza una più chiara, ulteriore specificazione (come nel caso della tutela ambientale e della sostenibilità dello sviluppo economico a discapito dell’uso anti-sociale delle risorse naturali, in vista dell’interesse generale specie delle generazioni future; tutte cautele che, a mio avviso, già ricadevano sotto l’ombrello dell’art. 9 Cost. ante riforma).

2. La tendenza a rivedere per via costituzionale l’ordinamento giudiziario

Torniamo alla riforma che investe oggi la Sezione I del Titolo IV (La magistratura) della Costituzione e che introduce Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare. Il tema della magistratura, come è noto, già nel 1999 era stato oggetto di una modifica specificativa dei precetti indicati nell’articolo 111 Cost. all’interno della Sezione II (Norme sulla giurisdizione) del Titolo IV. In tale circostanza, la riforma si è, a voler ben vedere, sostanziata in un insieme di regole che hanno scavato nel tessuto ordinamentale sino a estrarre supposti principi del c.d. giusto processo e che, in realtà, lungi dall’aver introdotto un processo penale accusatorio secondo il classico schema accolto nell’ordinamento nordamericano, hanno finito per definire norme strettamente processuali che ben potevano restare nella piena disponibilità del legislatore ordinario e che avrebbero egualmente potuto avere come identico supporto le (scarne, ma adeguate) disposizioni, più che non dell’art. 111 Cost., degli artt. 24, 25 e 27 Cost. 

In quest’ultima circostanza, senza dover necessariamente troppo scendere nel dettaglio della ipotizzata riforma, è innegabile che si “spinge”, da parte del Governo, per favorire l’introduzione di norme che attengono totalmente a questioni ordinamentali che il dettato costituzionale affida da sempre pacificamente alla legge ordinaria. Il tema viene “venduto” come separazione delle carriere tra i magistrati penali sebbene si tratta di rendere del tutto impossibile, sia pure con una rilevante eccezione (art.106, terzo comma, modificato: si consente la nomina “per meriti insigni” a consigliere di Cassazione anche di magistrati inquirenti), il passaggio tra la funzione giudicante e quella requirente, che è già attualmente disciplinato e realizzato. In realtà molti punti cruciali della riforma vengono lasciati sospesi e ricadono nella piena disponibilità del legislatore ordinario a partire dall’eventuale, possibile, reclutamento “distinto” dei magistrati requirenti. Il legislatore, in effetti, a seguito della norma transitoria contenuta nel testo del disegno di legge costituzionale deliberato dalle Camere (art.8), avrà un anno di tempo – termine sicuramente ordinatorio – per adeguarsi alle nuove disposizioni costituzionali cosicché solo al termine di questa inevitabile e preannunciata risistemazione complessiva della materia esse potranno spiegare concretamente i loro effetti. 

3. La vera posta in gioco con la riforma del Governo

In ogni caso è innegabile che la riforma in questione introduca anche innovazioni ordinamentali significative e ben più insidiose nella loro possibile evoluzione – anche legislativa come pure sopra richiamato – sulle quali sarebbe bene soffermarsi con più attenzione rispetto al suggestivo tema delle carriere separate e già oggettivamente distinte dei magistrati penali, che vengono lasciati, a prescindere dalle funzioni svolte, al momento almeno, tutti “dentro” la magistratura ordinaria. La prima è l’aver scisso, a livello costituzionale, l’attuale organo di autogoverno della magistratura ordinaria, il Consiglio Superiore della magistratura in due distinti CSM; la seconda è aver sottratto tanto all’organo destinato ad occuparsi dei magistrati ordinari – inclusi coloro che svolgono funzioni giudicanti in materia penale –  quanto a quello chiamato ad autogovernare i magistrati ordinari chiamati a svolgere funzioni requirenti del pubblico ministero, la giustizia disciplinare dei rispettivi appartenenti per affidarla unitariamente ad una Corte istituita ad hoc

Forse sarebbe il caso di focalizzare l’attenzione della pubblica opinione su queste modificazioni strutturali, che certamente innovano il tessuto costituzionale, rompendo solo a certi fini l’unitarietà della magistratura ordinaria e ipotizzando un controllo disciplinare esterno agli organi di autogoverno di tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario. A me pare che da queste scelte di fondo della riforma costituzionale si tenti di ridimensionare drasticamente la capacità della magistratura ordinaria di essere concepita, nel suo insieme, quale “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” chiamata a svolgere l’esercizio unitario della giurisdizione – civile e penale –, fermo restando l’attuale previsione che fa salvi i giudici speciali cui si affidano altre funzioni giurisdizionali e a cui il dettato costituzionale assicura per legge e non dunque per “assetto costituzionale” indipendenza nell’esercizio delle proprie competenze (art. 108, secondo comma). In gioco dunque c’è essenzialmente il superamento della specifica autonomia organizzativa spettante alla magistratura ordinaria – civile e penale – che implica per tutti i suoi appartenenti, ai sensi dell’art.105, la possibilità, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, di essere sottoposti a valutazioni, circa il loro status (dalle assunzioni, ai trasferimenti, alle promozioni sino ai provvedimenti disciplinari) da parte di un solo organo di rilievo costituzionale di natura elettiva, a parte i membri di diritto (tra i quali il Procuratore generale della Corte di Cassazione), tanto per la prevalente componente togata (2/3) quanto per quella di derivazione parlamentare (1/3). È noto come in effetti nell’ordinamento costituzionale si sia sempre parlato di “autogoverno” della magistratura ordinaria tout court. Distinguere, al contrario, come si vuole fare un Consiglio superiore della magistratura giudicante e un distinto Consiglio superiore della magistratura requirente apre consapevolmente una crepa all’interno della magistratura ordinaria penale, isolando i pubblici ministeri, cui si consente nominalmente di restare all’interno della magistratura ordinaria, sul debolissimo presupposto che questi svolgono in concreto funzioni differenti rispetto ai colleghi giudicanti. Questo è certo, né più né meno, come differenti sono le stesse funzioni propriamente giudicanti esercitate, rispetto ai giudici penali, dai giudici civili o dai magistrati di sorveglianza o da quelli che si occupano di giustizia minorile. Si prefigura piuttosto una “ghettizzazione” della sola magistratura requirente anche a costo di rompere l’unicità della funzione giurisdizionale attraverso l’esasperazione di una del tutto logica distinzione di funzioni ampiamente assicurata nel quadro ordinamentale vigente, non solo costituzionale, e in nome di quella distinzione si arriva a vietare in modo assoluto il passaggio da una funzione all’altra nel campo della giurisdizione penale nel mentre lascia intatta la possibilità di cambiare totalmente “mestiere” ad un giudice civile che continua a poter legittimamente passare a svolgere funzioni penali e viceversa. Qualcuno potrebbe pensare che, visto il costante riferimento di molti fautori della riforma a modelli stranieri richiamati per segnalare l’anomalia costituzionale italiana che in effetti mantiene geneticamente i magistrati requirenti “dentro” la magistratura ordinaria, che questa riforma, sul piano della cultura istituzionale, serva solo per aprire con studiata delicata ipocrisia la strada a riforme di altra natura e sostanza riguardanti il ruolo dei magistrati cui si assegnano funzioni requirenti, posto che l’approdo è rappresentato da altri sistemi che certamente prevedono l’esercizio in chiave più politica dell’azione penale.   

4. Le convenienze della maggioranza e la resa dei conti con la magistratura inquirente

È sperabile per tante ragioni che sarebbe superfluo indicare almeno a quanti conoscono la lenta evoluzione democratica del nostro Paese e i suoi sussulti di segno diverso, come, pur nella risalente e accesa polemica che vede contrapposto il potere politico di derivazione elettiva alle iniziative giudiziarie che lo riguardano direttamente (si tratta di una “storia” che ognuno legge servendosi degli strumenti culturali di cui dispone e ovviamente della propria sensibilità politica), non sia questa la direzione di marcia nella quale intende proseguire l’ordinamento italiano. La storia della democrazia italiana, anche quella attuale, mi pare abbia  mostrato una capacità di penetrazione della politica – parlo di quella insofferente rispetto ai limiti che ne ostacolano gli indirizzi da perseguire –  riuscendo spesso ad aggirare le stesse “barriere costituzionali” che, tuttavia, restano fortunatamente ancora in piedi a testimoniare semmai come i soli accorgimenti tecnici, pur se di segno costituzionale, si siano dimostrati insufficienti ad evitare pratiche e logiche che non hanno certamente lasciato al riparo la stessa magistratura ordinaria e quanti, al proprio interno, avrebbero dovuto tenerla fuori da quelle deleterie contaminazioni.

Se, ciononostante, nel nome di quelle accertate e gravi inadeguatezze che hanno investito lo stesso organo di autogoverno si pensa di promuovere scelte che ne vorrebbero affievolire oggettivamente l’autorevolezza istituzionale (si pensi alla nomina addirittura per “sorteggio cieco” dei membri togati dei due ipotizzati CSM così, si dice, da ridurre il “peso” delle correnti della magistratura associata) e se si giunge persino a prevedere un processo disciplinare – che in questo caso “riunifica” nuovamente i magistrati requirenti al resto della magistratura ordinaria – superando addirittura il divieto esplicito di istituire giudici speciali, ai sensi dell’art. 102, secondo comma, Cost. arrivando a proporre una modifica costituzionale sulla quale si chiede a gran voce il pronunciamento degli elettori, come in una sorta di resa dei conti tra poteri dello Stato in competizione tra loro, si banalizza oltre il tollerabile la stessa funzione unificante della Legge Fondamentale della Repubblica.

Ancora una volta la politica deteriore spera di ottenere obiettivi che valuta come strategici per ragioni che la potranno rafforzare nell’immediato, sconfinando senza alcun imbarazzo nel terreno costituzionale così da poter issare i loro vessilli. Lo fa in questo caso davvero subdolamente, partendo da esigenze reali o avvertite da molti come tali: è innegabile che siano gravi e urgenti le problematiche che affliggono l’esercizio della funzione giurisdizionale nel nostro Paese. Questo rende più che mai necessario spiegare molto bene all’opinione pubblica che questo sconfinamento tuttavia incide molto più di ciò che appare sull’equilibrio costituzionale assicurato a poteri ontologicamente distinti e sulle sapienti connessioni e distinzioni tra di loro e che hanno consentito e consentono ancora oggi la presenza di una magistratura ordinaria autonoma e indipendente dagli organi di indirizzo politico. Ciò continuerà ad essere possibile solo se la giurisdizione potrà ancora esprimere una forte sensibilità democratica, nutrita da una qualificata e rigorosa sapienza giuridica, quale che sia il ruolo e la funzione esercitata dai suoi interpreti, a partire dai magistrati chiamati ad esercitare l’azione penale non per calcolo politico e neppure per perseguitare chicchessia ma solo nel nome della legalità eventualmente da riaffermare. Questo dice la Costituzione, qui ora e adesso!            

Antonio D’Andrea è professore ordinario di diritto costituzionale e pubblico presso l’Università degli Studi
di Brescia nonché Presidente della Commissione cultura dell’Associazione “Passione civile con Valerio
Onida”. È autore di monografie e saggi di diritto costituzionale, con particolare riferimento allo studio della
forma di governo e dell’assetto ordinamentale italiano.

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