Dalla mobilitazione sui referendum un nuovo patto di cittadinanza per la democrazia

24 Gennaio 2025

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

Questo intervento è stato proposto alla riflessione dei partecipanti all’incontro “Una e indivisibile, fondata sul lavoro e sui diritti” promosso dalla Cgil a Genova, giovedì 23 gennaio.

Se la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum contro la legge sull’autonomia regionale differenziata – con un pronunciamento che, se da un lato sembra rendere vano il grande lavoro fatto dai comitati per raccogliere un milione e trecentomila firme, dall’altro ribadisce, nei fatti, che il testo della legge viola principi costituzionali essenziali come l’unità della Repubblica, la solidarietà tra regioni e l’uguaglianza dei cittadini – si è anche espressa per l’ammissibilità dei cinque referendum sul lavoro e sulla cittadinanza. È da qui che dobbiamo partire. E, come indica il titolo dell’incontro di oggi, dalla Repubblica: “Una e indivisibile, fondata sul lavoro e sui diritti”.

“Una e indivisibile”, dice l’art. 5 della Costituzione. Questo sarà il filo rosso per quel che riguarda la nostra battaglia, tutt’altro che finita, sul regionalismo, che dovrà essere regionalismo solidale.

Una Repubblica che non è patria – identitaria, escludente – ma patto di cittadinanza: una Repubblica nata dalla Resistenza e dalla sconfitta del fascismo, di cui quest’anno celebriamo l’ottantesima ricorrenza.

Una Repubblica “fondata sul lavoro”, come chiedono i quattro referendum su licenziamenti, precariato, Jobs Act e sicurezza sul lavoro; fondata sui diritti, come chiede il referendum sulla cittadinanza. Tutto questo è contenuto in due articoli cardinali. L’art. 2: “La Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. E l’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il nostro impegno deve essere rivolto a non disperdere la promessa fatta – con un milione e trecentomila firme – di affermare la democrazia, il voto, la partecipazione, la solidarietà politica, economica e sociale, ovvero la piena attuazione degli articoli 2 e 3.

Per questo, dobbiamo preservare la ricchezza dei comitati territoriali e far diventare i cinque referendum una costruzione di consapevolezza, di conoscenza e di impegno, sapendo che siamo di fronte a un progetto autoritario e che la nostra mobilitazione avverrà in un clima ostile, di riduzione degli spazi di parola e di agibilità; di criminalizzazione del dissenso e del conflitto, per quanto pacifico; di delegittimazione della Magistratura e dei corpi intermedi.

Dobbiamo attrezzarci a leggere quello che avviene non come una sassaiola, una frana che ogni giorno abbatte una pietra sul nostro sistema di riferimenti, ma come un processo organico e coerente di restringimento della democrazia e della libertà.

Negli ultimi due anni ci siamo abituati a sentire enormità e ritrattazioni, in un continuo spostamento di soglie. Asserzioni che poco per volta normalizzano una subcultura nutrita di razzismo, xenofobia, sessismo, omofobia, disprezzo dei poveri, dei marginali, di tutti coloro che a vario titolo vengono visti come difformi, trovando una cassa di risonanza nell’abnorme occupazione di spazio mediatico, ormai pressoché privo di contraddittorio.

Poco per volta slittiamo verso una normalizzazione, un’adesione a ciò che solo due anni fa sarebbe stato impensabile. Tanto che oggi può accadere senza eccessivo scandalo che un libro di testo adottato in un liceo venga ritirato dall’editore su indicazione del ministro dell’Istruzione e del Merito a causa di una frase critica delle politiche migratorie di Salvini attuate durante il primo Governo Conte – una frase, per altro, tratta dal sito di un’agenzia dell’Onu – e che la preside chiamata in causa si affretti a chiedere scusa, perché il suo liceo “non vuole plagiare gli studenti”.

È segno di un clima asfittico, che ricorda quello del 1924, di cui scrisse Piero Calamandrei. “Fino al 1924, resse la generosa illusione della libertà che si difende da sé, come una forza di natura”.  Il cedimento al fascismo “non fu viltà o debolezza, fu disorientamento ed errore di gente onesta e civile” di fronte all’evidenza che in Italia si insediava un’“anemia critica”, una “stomachevole uniformità di tutti i giornali”, una “ributtante retorica, penetrata come un contagio”.

Per questo, i comitati per i referendum possono diventare un osservatorio sulle riforme e sull’involuzione autoritaria nel nostro Paese. Un’involuzione che si esprime attraverso atti politici, giuridici e amministrativi, ma anche in una corruzione del linguaggio.

Assistiamo infatti a un inquinamento dell’opinione pubblica con l’introduzione di termini che diventano correnti, come “clandestini”, “zone rosse”; con l’introduzione di concetti che incattiviscono, come “deportare” parlando di profughi, “buttar via la chiave” parlando di carcerati; con la produzione di paradossi, come il “Daspo di capodanno”,  un’enormità di per sé, amplificata dall’incongruenza di una misura nominata come “di Capodanno” che dura fino alla fine di marzo. O, ancora, un inquinamento che si sostanzia nel continuo fomentare l’ostilità del Paese nei confronti della Magistratura. Tutto questo si traduce, nei sondaggi, in acritica adesione alle retoriche che poi diventano in politiche.

Questa subcultura è alla base dell’ingiustificata moltiplicazione di reati e fattispecie di reato, che intendono colpire con sanzione penale anche forme di disagio sociale e di dissenso politico, e dell’introduzione di concetti ipotetici, fumosi, come quelli che istituiscono le “zone rosse”, nelle quali non possono stazionare “soggetti che assumono atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti” o che “costituiscono un concreto pericolo per la sicurezza pubblica”. Cosa vuol dire? In che modo si determinano gli “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti”? Sono concetti la cui individuazione è rimessa alla valutazione soggettiva della forza pubblica, con l’evidente rischio di un uso arbitrario e discriminatorio. 

Questa subcultura è alla base del progetto di “scudo penale” per gli appartenenti alle forze dell’ordine, oggetto di continue dichiarazioni e spallate, benché si configuri come incostituzionale – prevedendo un trattamento giudiziario diverso rispetto alla generalità dei cittadini – e benché ipotizzi un distacco tra le forze di polizia e la società civile, quando il compito della polizia risiede, al contrario, nel garantire spazi di democrazia e diritti costituzionali.

Questa subcultura, infine, impronta il ddl 1660 cosiddetto Sicurezza, che prevede misure crudeli, come il divieto di vendere le SIM ai migranti che non hanno il permesso di soggiorno; l’abolizione del differimento obbligatorio della pena in carcere per le detenute madri; le aggravanti che superano le attenuanti in caso di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale; l’introduzione del reato di rivolta in carcere che include la resistenza passiva e pacifica; l’aumento delle pene per chi protesta contro opere pubbliche “strategiche”.

Abbiamo dei punti di appoggio per combatterlo: non solo il Presidente della Repubblica, che ha sollevato rilievi molto pesanti sulla costituzionalità del ddl approvato alla Camera nel settembre 2024, ma anche la Giunta delle Camere Penali, che ne ha denunciato la matrice populista, illiberale e autoritaria, «caratterizzata da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi e ai danni dei soggetti più deboli», tanto da definirlo un tipico esempio di «diritto penale simbolico, che mira esclusivamente a lucrare consenso, facendo leva su un sentimento di insicurezza a sua volta strumentalmente diffuso nella collettività».

Senza dimenticare l’orizzonte europeo. Già il rapporto della Commissione europea sullo Stato di diritto, a luglio dello scorso anno, aveva segnalato preoccupanti criticità per quel che riguarda l’Italia, a cominciare dai numerosi casi di intimidazione a danno dei giornalisti e dalle continue azioni civili e penali avviate da esponenti politici nella più assoluta disparità di ruolo. Ora il Commissario europeo per la tutela dei diritti umani ha sollevato pesanti rilievi sul ddl Sicurezza, e in particolare sulla criminalizzazione della protesta nelle carceri, la cui condizione è di per sé non conforme agli standard internazionali ed è stata oggetto di ripetute condanne a livello europeo. Sollecitazioni non raccolte dal Governo, benché nel 2024 si sia registrato il record di novanta suicidi di carcerati, e già nei primi venti giorni del 2025 siano stati otto i prigionieri a togliersi la vita, più del doppio di quanto avvenuto nello stesso periodo del 2024.

Dobbiamo infine guardare all’insieme della riforma della Giustizia, agitata da tempo, davanti a provvedimenti sgraditi alla maggioranza, soprattutto in materia di immigrazione, con l’accusa rivolta ai giudici di fare opposizione al governo con le sentenze. In particolare, dobbiamo guardare alla riforma sulla separazione delle carriere dei magistrati tra funzione giudicante e funzione requirente, con l’accusa rivolta ai PM – nella relazione del ministro della Giustizia al Senato – di essere «super-poliziotti che non solo dirigono le indagini ma le creano, esercitando un potere immenso senza alcuna responsabilità perché coperti dalle stesse garanzie dei giudici».

Una Riforma approvata alla Camera in prima lettura con testo blindato. Sono stati bocciati gli ordini del giorno presentati dall’opposizione con cui il governo si sarebbe dovuto impegnare non solo a non far dipendere il Pubblico Ministero dall’esecutivo, ma anche a evitare che si togliesse al Pubblico Ministero la direzione delle indagini della Polizia giudiziaria. 

Togliere al Pubblico Ministero la direzione delle indagini della Polizia giudiziaria significa, di fatto, far gestire l’azione penale alla Polizia e al Ministero dell’Interno, ha affermato la presidente di Magistratura Democratica Silvia Albano – a cui va la nostra solidarietà, insieme a tutti gli altri giudici nominati in una sorta di lista di proscrizione dal capogruppo di Forza Italia al Senato; visti come nemici del governo e della maggioranza nonostante alcuni di loro siano già sotto vigilanza o addirittura sotto scorta per le minacce ricevute. Togliere la direzione delle indagini al Pubblico Ministero apre a una preoccupante possibilità di interferenza dell’esecutivo sulle indagini.Saranno Polizia e Ministero dell’Interno a decidere quali reati perseguire, e il ddl Sicurezza mostra molto bene quali saranno i reati che vorranno perseguire.

Inoltre, ai due CSM, indeboliti già per il solo fatto di essere sdoppiati, vengono sottratte una serie di competenze. Prima fra tutte quella in materia disciplinare, delicatissima rispetto alla garanzia di indipendenza della magistratura.

Di tutto questo complesso scenario dobbiamo essere consapevoli, informati, in grado di spiegare, nelle scuole,  sui luoghi di lavoro, ovunque possiamo aprire dei varchi.

Ci è affidata la responsabilità di difendere – a partire dalle basilari richieste avanzate dai cinque referendum sul lavoro e sulla cittadinanza – la nostra democrazia, la libertà che è condizione necessaria al pensiero, alla partecipazione, alla politica come bene comune.

Scrittrice, saggista e Presidente di Libertà e Giustizia. Si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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