Ricchi e poveri: l’apartheid dell’acqua in tutto il pianeta

12 Ottobre 2024

Lorella Beretta Giornalista

Gli indiani nativi d’America, gli afroamericani dei ghetti, gli immigrati sudamericani passati illegalmente dal confine: negli Stati Uniti, ma anche in tutto il resto delle cosiddette economie sviluppate, Italia compresa, l’accesso all’acqua potabile è un privilegio dei ricchi. Per i poveri, invece, non sempre esce acqua dai rubinetti di casa e comunque è facile che sia inquinata. Pensiamo alle baraccopoli dei lavoratori irregolari ai bordi delle nostre campagne. Ma non solo.

Questo testo corrisponde al capitolo dal titolo «Politiche razziali dell’acqua, dal Sudafrica a New York» che è parte del libro collettivo Gli Stati Generali dell’Apartheid edito da Castelvecchi editore, collana Lupicattivi. Il libro, pubblicato nel 2022, ha visto la collaborazione di 68 tra autori e autrici di varie provenienze ed esperienze. L’elenco è lungo e ci sono, tra gli altri, il Relatore speciale Onu per il diritto umano all’acqua Pedro Arrojo, la presidente del Blue Planet Project Maude Barlow, il leader Mapuche Miguel Melin Kewen, il vescovo della Patagonia cilena Luis Infanti de la Mora, Faeza Meyer dell’African Water Commons Collective e il collettivo Gaza Freestyle.

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Ricchi e poveri. La madre di tutte le discriminazioni sta nelle disponibilità economiche e l’acqua (potabile, s’intende) ne solca il confine e ne scava la profondità, non solo nei paesi cosiddetti in via di sviluppo ma anche nel cuore del sogno americano. Classe sociale e razza si sovrappongono e s’impastano in un unico grosso pregiudizio, anzi in una pregiudiziale: le diseguaglianze dell’acqua, water inequality. L’oceano invalicabile tra chi ha e chi non ha, tra gli haves e gli have-nots. L’oro blu, sinonimo che ne indica il crescente valore di mercato che non sfugge a chi usa le commodities a proprio vantaggio, è risorsa sempre più scarsa e sempre più cara: le bollette per i servizi idrici sono aumentate in tutto il pianeta, facendo ulteriormente crescere il gap tra chi può e chi non può permetterseli. Con una prospettiva ancora peggiore per miliardi di persone che subiscono più di altri gli effetti diretti e devastanti dei cambiamenti climatici. E con l’aumento delle temperature, i poveri, i vulnerabili, soffriranno di più il caldo e i suoi effetti, su questo c’è unanimità. Non avere acqua potabile significa non solo sete, e fame, ma limitazioni in tutti gli aspetti della vita di ordine igienico e sanitario ma anche sociale, di possibilità di andare a scuola o a lavoro, con un impatto maggiore sulle donne, in tutte le fasi della loro esistenza. Tra modelli di sviluppo che abusano dell’acqua e sistemi di sottosviluppo che non la garantiscono nemmeno per bere e mangiare. 

Apartheid dell’acqua, si usa dire, e la mente corre subito al Sudafrica dove nasce quel termine afrikaans, la lingua dei coloni boeri artefici e interpreti del regime combattuto da Nelson Mandela e da milioni di neri; apartheid significa separazione e ancora oggi nella Nazione Arcobaleno, liberata nel 1990, è un dato di fatto. E di cronaca. Nonostante il diritto all’acqua, e al cibo, sia dichiarato esplicitamente nella Costituzione, ricchi e poveri vivono vite diverse, forse mai così lontane le une dalle altre; non una questione di colore della pelle bensì di soldi. 

Nel 2018, a Cape Town e in tutta la sua regione, il ricco Western Cape, si è quasi arrivati al temuto Day Zero, il giorno in cui si prevedeva che da nessun rubinetto sarebbe uscita una goccia d’acqua: un rischio sventato con il razionamento, per mesi, a non oltre 50 litri per persona al giorno, e con controlli ferrei sui contatori. Mesi in cui ogni giorno, e ogni notte, si allungavano le code alle centinaia di fonti pubbliche allestite dal Municipio e presidiate dalla polizia per impedire assalti e abusi di persone arrivate a piedi, o con macchine scassate, dalle townships e dagli altri quartieri poveri dove non sempre arrivano le tubature idriche e dove di sicuro nelle baracche di latta non c’è nemmeno il bagno, una doccia, o il water. Nei ristoranti intanto si cambiavano i menù alla bisogna: tolti i piatti di pasta, sostituite le verdure bollite con quelle fritte o stufate, niente zuppe, rivalutazione delle ricette crudiste. Negli alberghi venivano applicati timer alle docce, consentite per non più di due minuti, e sparivano i tappi dalle vasche da bagno per soffocare sul nascere la tentazione di riempirle. Nelle aziende agricole si metteva fondo alle riserve d’acqua, quelle che ne avevano. Tutta colpa della siccità, delle dighe capetoniane sempre più vuote a causa delle limitate piogge ma anche per le condizioni degli impianti di trattamento ormai al collasso: al 2022, è la denuncia di un report del Water Institute of Southern Africa (WISA), su 850, almeno 334 di queste strutture sono in pessime condizioni che non garantiscono la disinfezione delle acque da batteri e agenti chimici. Si aggiungono poi altri due fattori importanti: l’utilizzo di almeno il 60% delle riserve idriche in agricoltura e nell’agribusiness, prima economia della regione e del paese, e una concentrazione abitativa esplosa con i flussi migratori verso un’area molto attrattiva grazie alla fiorente economia. Una sovrappopolazione alla quale non si è accompagnata una crescita adeguata dei servizi: per esempio, tra il 1995 e il 2018 gli abitanti della sola Cape Town sono aumentati del 79% contro una capacità di raccolta delle acque cresciuta solo del 15%. Per l’Environmental and Energy Study Institute gli effetti della crisi idrica colpiscono tutti, ma alcuni più di altri: “la siccità sta scavando il divario tra ricchi e poveri, con i primi in grado di mettere in atto contromisure importanti come l’acquisto di bottiglie d’acqua, l’escavazione di pozzi o l’acquisto di macchine di desalinizzazione”. Una situazione che si ripropone di tanto in tanto e che si riproduce in tutto il Paese e soprattutto nelle zone rurali e più povere e che affonda le radici nei progetti urbanistici improntati sulla separazione dei bianchi dai “non-bianchi”, o meglio dei ricchi dai “non-ricchi” con questi ultimi in larga maggioranza relegati in aree senza adeguati servizi sanitari di sorta. Un gap che con l’avvento della democrazia non si è però ridimensionato ma anzi: alla domanda crescente di acqua potabile si sono affiancati malgoverno e corruzione, rendendo ancora più fragili e marginali coloro che invece avrebbero avuto bisogno di investimenti e miglioramenti, i poveri, appunto. Con addirittura il 26% delle scuole e il 45% degli ospedali in tutta la nazione senza accesso all’acqua. ”Solo” l’11% delle famiglie non ha acqua, dicono le statistiche ufficiali di Pretoria, ma di quell’89% più fortunato poco meno della metà la riceve direttamente nella propria abitazione. E soprattutto, secondo le stime del Governo sudafricano, 3 famiglie su cinque hanno sistemi idrici resi poco efficaci dall’impatto dei cambiamenti climatici ed entro il 2030 ci sarà un deficit del 17% nell’approvvigionamento idrico.

L’acqua è risorsa sempre più scarsa e sempre più cara: le bollette per i servizi idrici sono aumentate in tutto il pianeta, facendo ulteriormente crescere il gap tra chi può e chi non può permetterseli

Non è un caso, quindi, che nel Sudafrica democratico a scatenare le numerose proteste nelle aree povere sia stata proprio la richiesta di collegamenti moderni all’acqua, ai servizi igienici e sanitari. Con la rabbia di promesse ormai vuote come le dighe, nonostante una legge (la Free Basic Services Act) garantisca a tutti i cittadini i servizi base. Ma sulla carta, come spesso accade.  

Malgoverno, corruzione, o indifferenza: quale che sia il motivo, il risultato è identico in tutto il mondo: i cambiamenti climatici, lo sfruttamento delle risorse naturali, l’inquinamento, la cattiva gestione della cosa pubblica ricadono sempre e solo sui più poveri, per questo sempre più poveri. Il caso tanto famoso quanto ignorato è quello che colpisce i palestinesi, di cui si parla in un capitolo specifico di questo libro. Meno conosciute, invece, le condizioni di sofferenza causate dalla limitata disponibilità di acqua bevibile sulle popolazioni di Bangladesh, Nicaragua, Sud-Est asiatico, ma anche del mondo più ricco, per esempio negli Stati Uniti. Nell’America del Nord la definiscono “plumbing poverty”, la povertà delle tubature, cioè niente acqua in casa o, quando c’è, carica di contaminazioni pericolose, dalle feci al piombo a un mix letale per ogni forma vivente: i peggio messi sono soprattutto i nativi americani, i neri, gli ispanici. Ovviamente quelli poveri. Secondo una ricerca condotta in quindici città da Plumbing Poverty Project (PPP), in collaborazione con il King’s College di Londra e l’Università dell’Arizona, nel 2017 c’erano quasi un milione e mezzo di americani in questa situazione. Un censimento che ha fotografato la convivenza tra la ricchezza manifesta e l’estrema povertà a San Francisco dove almeno 15.000 famiglie vivono senza un bagno, senza acqua potabile dal rubinetto della cucina; quasi 19.000 a Los Angeles, minimo 27.000 a New York. Lo studio dell’American Association of Geographers, l’associazione dei geografi americani, conferma la discriminazione razziale di questo fenomeno: se gli ispanici rappresentano il 12,5% dei nuclei familiari proprietari o affittuari, sono il 16,7% quelli che vivono in plumbing poverty; 12,8% e 16,6% per i neri. Eppure risale al 1972 la Clean Water Act, la legge che intendeva, il passato è d’obbligo, garantire l’acqua a tutti i cittadini residenti su territorio statunitense. Acqua potabile, acqua pulita, ovviamente: invece un’inchiesta del The Guardian, con Consuming Reports, evidenzia come nei rubinetti delle case americane siano state trovate ingenti quantità di piombo, arsenico e altri elementi chimici tossici. Il caso più famoso è quello di Flint, nel Michigan, che la Commissione dei diritti civili dello Stato arrivò a definire “un risultato di razzismo sistemico”. Un esempio, fra tanti, di razzismo (e classismo) ambientale. Esplicito fu l’attacco di un reportage nel 2016 del New York Times: “Se Flint fosse stata abitata soprattutto da ricchi e bianchi, lo stato del Michigan avrebbe risposto più celermente e più efficacemente alle denunce sull’acqua inquinata della città?”. Perché la particolarità della popolazione di Flint è che è prevalentemente nera e povera: con la crisi industriale e la crisi economica, nel 2014 la città decise di andare al risparmio attaccando l’acquedotto al fiume, notoriamente inquinato proprio per quelle industrie che un tempo vi riversavano gli scarichi. Subito i cittadini denunciarono cattivo odore dai rubinetti, un pessimo sapore dell’acqua, e poi pian piano anche intossicazioni e sintomi derivanti: ma per oltre un anno e mezzo furono lasciati a utilizzare quell’acqua piena di piombo. Sarebbero 25 milioni gli americani che bevono l’acqua condotta da tubature vecchie e contaminate. Il piombo è il più presente elemento tossico nelle scuole di tutti gli Stati, denunciano test, indagini, statistiche. Una situazione preoccupante per la salute dei bambini, ancor prima che per gli adulti. 

In Bangladesh l’acqua arriva al 98% delle famiglie, dicono i dati ufficiali, ma in 80 casi su cento è ricca di Escherichia coli, in 13 su cento contiene arsenico. A San Diego nel 2018, il 62% dei redditi bassi, un quinto degli abitanti totali della città, non era in grado di onorare bollette proibitive

Una foto che difficilmente ci si aspetterebbe di scattare nel paese più ricco e potente del mondo. Eppure è una situazione che peggiora di anno in anno e che marca ancora di più le diseguaglianze, colpa dei cambiamenti climatici e della siccità, dell’inquinamento, della privatizzazione delle acque, della pandemia SARS-CoV-2, dell’inflazione, della perdita di posti di lavoro: perché sempre più negli Stati Uniti aumentano le persone che non si possono permettere di pagare le bollette dell’acqua. A San Antonio, per esempio, la metà esatta della popolazione accede agli sconti previsti dai programmi di sostegno per i più fragili. 
Tra il 2010 e il 2018 l’aumento medio delle bollette è stato del 27% con picchi del 154% – sì, centocinquantaquattro per cento – a Austin, in Texas. A San Diego nel 2018, il 62% dei redditi bassi, un quinto degli abitanti totali della città, non era in grado di onorare bollette proibitive. A New Orleans si trovano in questa situazione quasi 8 persone povere su 10 e si stima che la percentuale sia destinata a salire a 93 entro il 2030 se i costi continueranno a crescere. A Jackson, la nerissima capitale del Mississippi, le tempeste invernali hanno messo in crisi l’intera città evidenziando una carenza strutturale nella manutenzione delle infrastrutture. Un colabrodo al quale le riforme, attuate o annunciate, non pongono argini. Eppure si conoscono perfettamente le categorie sociali più colpite e perfino dove risiedono, nelle aree dei nativi americani, nei quartieri dei neri e dei latinos, e lungo quella linea rossa che da inizio del secolo scorso in alcuni Stati ha diviso le persone in base al loro “livello di rischio”, alla loro capacità di investire e restituire prestiti ma con un criterio razziale: secondo uno studio delle università di Richmond e di Portland, oggi nei quartieri di neri e ispanici poveri le temperature sono più alte per la carenza di acqua, la mancanza di vegetazione, per l’uso massiccio di cemento che assorbe e restituisce calore. Rimanendo sempre nel campo delle disuguaglianze sui territori, un terzo dei 180.000 cittadini della Riserva Navajo, tra l’Arizona il New Mexico e lo Utah, non ha acqua corrente e nel picco della pandemia Covid il tasso di infezione ha superato, per l’impossibilità di garantire l’igiene minima, quello di New York.

Classe sociale, razza, ma anche il sesso è motivo ulteriore di discriminazione: le donne infatti sono le più colpite in assoluto anche dalla scarsità d’acqua

Segregazione e disparità, in qualunque settore, vanno di pari passo. Lo dice anche la Banca Mondiale che indica l’accesso universale all’acqua pulita quale strumento per ridurre le povertà: in un rapporto sul Bangladesh, per esempio, la World Bank denuncia che la parte più povera di popolazione bengalese soffre di malattie dell’apparato gastro-intestinale tre volte di più di chi riceve a casa acqua pulita. L’acqua arriva al 98% delle famiglie, dicono i dati ufficiali, ma in 80 casi su cento è ricca di Escherichia coli, in 13 su cento contiene arsenico. Gli slums, dove si concentrano i poverissimi, hanno un quinto dei servizi igienici degni di tale nome e i più alti tassi di denutrizione tra i bambini. 
Sempre dai dati ufficiali, un terzo dei bambini sotto i 5 anni sono rachitici. Le bambine sono le più colpite: solo metà delle scuole elementari ha bagni divisi tra maschi e femmine e quasi la metà delle ragazze abbandona la scuola all’arrivo delle mestruazioni. Stessa situazione per i luoghi di lavoro, con una discriminazione ulteriore ai danni delle donne. Per questo le ONG hanno investito su progetti di partecipazione femminile particolarmente impegnati per ottenere migliori servizi idrici e sanitari. Nel sottodistretto di Morrelganj, per esempio, particolarmente sofferente per la scarsità di acque dolci e pulite anche negli ospedali, con un inquinamento rilevato anche nei prodotti alimentari della zona, è stato un successo la battaglia del Parlamento delle donne: dopo anni di lotta sono riuscite a ottenere la costruzione di sei sistemi filtranti la sabbia, 355 toilet e 76 serbatoi di acqua piovana. Classe sociale, razza, ma anche il sesso è motivo ulteriore di discriminazione: le donne infatti sono le più colpite in assoluto anche dalla scarsità d’acqua. Sono loro quelle incaricate di andare a raccoglierla alle fontane o nei pozzi, a percorrere chilometri a piedi e a stare in coda in attesa: una stima dell’UNICEF misura in 200 milioni di ore il tempo impiegato dalle donne per recarsi a raccogliere acqua. Un impegno che significa sottrazione di tempo e risorse alla formazione, a percorsi di autonomia, di socialità, di crescita personale. E che le rende ancora più fragili sul piano sanitario. Oltre che esposte ad abusi e violenze lungo i percorsi costrette a compiere. 

Afghanistan, Cina, Corno d’Africa, Nicaragua, Brasile, India, Cile, Haiti, ovunque sempre la stessa storia. Per esempio in una delle città più calde del Pakistan e del pianeta, Jacobabad, la temperatura arriva anche ai 51 gradi Celsius (124 Fahrenheit), i corsi d’acqua sono discariche alla luce del sole e la mancanza di acqua corrente rende impossibile raffreddare gli ambienti o rinfrescare la bocca e la pelle. In sofferenza idrica ed energetica, nemmeno gli ospedali possono garantire tutti i servizi al numero sempre crescente di persone ricoverate per il caldo insopportabile per il corpo umano. In India, il 70% delle famiglie dipende dalla piccola produzione agricola per il proprio sostentamento, ma la diminuzione delle piogge e l’insufficienza dei sistemi di riciclo delle acque piovane sono un pericolo reale per la sopravvivenza. Ad Haiti, invece, emblema di quella povertà cronica che arranca all’ombra degli sfarzi dei pochi, tre quarti della popolazione è affetta da carenza di acqua potabile, il che significa che la maggior parte degli haitiani usa quella inquinata che arriva da tubi vecchi o dai fiumi contaminati dagli scarichi industriali e civili, dai depositi di rifiuti a cielo aperto e dalle latrine che sostituiscono bagni civili. A peggiorare la situazione, in questo inferno in un’oasi di paradiso, ci sono i frequenti terremoti che danneggiano le infrastrutture e rendono più difficile la distribuzione di aiuti. Un mix esplosivo che determina ondate di colera che colpiscono soprattutto i bambini e che scatenano la violenza delle bande armate locali che controllano containers e pompe dell’acqua pulita. 

Ma per capire che l’acqua rimane una chimera per i poveri, proprio e solo per i poveri, basta guardare alle condizioni nelle quali vivono i lavoratori migranti in Europa, in Italia come in Spagna come in Grecia, ai margini delle metropoli o delle aree rurali. Uomini e donne impiegati come manodopera fondamentale per le sorti della filiera agricola ed alimentare o di qualunque altro settore economico eppure dimenticati tra baracche su distese desertiche: come per esempio nel campo di Dallas a El Ejido, in Andalusia. Conosciuto come Mar de plástico, il mare di plastica, è un’enorme distesa di 31 mila ettari di serre, tra quintali di plastica e contenitori di pesticidi, dove vivono i braccianti e le loro famiglie, da oltre 30 anni senza acqua potabile, bevendo quella che c’è, carica di nitrati e non solo. Un mix esplosivo dal punto di vista sanitario e sociale, con alti tassi di violenza, alcolismo, depressioni, suicidi. Le donne rappresentano oltre il 70% della forza lavoro e sono le principali vittime di questa perpetua guerra a bassa intensità, dove come sempre la mancanza di acqua rende tutto più difficile. In Italia ci sono i campi nelle stesse condizioni a Rosarno, San Ferdinando, Taurianova, Rignano e via dicendo: ammassi di lavoratori poveri senza diritti, nemmeno l’acqua. 

Peggio della siccità può il malgoverno: lentezza, inadeguatezza, disinteresse, corruzione sono gli elementi dell’inefficace regolamentazione e vigilanza da parte dei Governi che dovrebbero garantire a tutti diritti universali come quello dell’acqua potabile. Un proposito ratificato dalle Nazioni Unite, la cui violazione, come si vede, impatta con violenza sulle azioni quotidiane e sulle aspettative di vita, sulla quantità e sulla qualità dell’alimentazione, sulla gestione del freddo e del caldo, sulla salute, sulle opportunità educative e lavorative, sugli strumenti di sviluppo individuale e collettivo. Sul presente e sul futuro. Perché l’acqua non è solo un diritto umano ma, come si dice in Africa, “l’acqua è vita”. 

Lorella Beretta è giornalista freelance. È responsabile della comunicazione di Libertà e Giustizia.

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