Un anno di governo Meloni. Padoan: Zelig e il Gatto dello Cheshire

25 Settembre 2023

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

Un anno di governo di Giorgia Meloni, la prima donna Presidente del Consiglio. Un anno di governo della destra. Daniela Padoan, Presidente di Libertà e Giustizia, ne ha scritto su La Stampa di domenica 24 settembre. Qui sotto il testo integrale della sua analisi.

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Il principio del never complain, never explain, «mai lamentarsi, mai spiegare», che è stata una regola di vita per la sovrana del Regno Unito, è del tutto estraneo alla comunicazione di Giorgia Meloni.

«Gli attacchi e le trappole si moltiplicheranno, tenteranno di disarcionarci. Aspettiamoci dossieraggio e fake news contro di noi», ha detto qualche giorno fa all’assemblea nazionale di Fratelli d’Italia, pur avendo nominato suoi uomini di fiducia nei ministeri chiave e nelle grandi partecipate dello Stato, pur avendo occupato palmo a palmo lo spazio televisivo pubblico e potendo contare sul sostegno di gran parte di quello privato. Un dispositivo retorico che utilizza indiscriminatamente la denuncia del complotto: ostilità dei poteri forti e del deep state, sinistra che esulta «a ogni minima difficoltà dell’Italia», «forze italiane ed europee che remano contro e fanno di tutto per smontare il lavoro che si sta portando avanti», accuse all’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell e al commissario europeo Gentiloni, reo di non avere «un occhio di riguardo per la nazione che rappresenta», benché il Trattato di Lisbona (art. 17) reciti: «i membri della Commissione non sollecitano e non accettano istruzioni da nessun governo». E contemporaneamente l’esaltazione della figura dell’underdog che, pur vincente, resta fedele alle origini, del condottiero che indica l’accerchiamento e mobilita contro il pericolo.

Cenerentola e Giovanna d’Arco, l’ha definita Alessandro Sallusti nel libro-intervista La versione di Giorgia, incassando il compiacimento dell’intervistata, che ha aggiunto di ritrovarsi nel vaticinio letto in un libro di oroscopi, secondo il quale la sua data di nascita corrisponde al «giorno dell’eroismo inevitabile». «Mi ritrovo», ha detto, «non nell’eroismo ma nell’inevitabile». La chiamata. Il destino. Non un destino qualunque: Meloni nel libro parla di rivoluzione. «La rivoluzione la fai se riesci a contagiare la nazione», dice a Sallusti. «Il mio obiettivo è che quando morirò qualcuno che non ho conosciuto venga a portare un fiore sulla mia tomba per ringraziarmi di ciò che sono riuscita a fare per l’Italia. Perché le vere rivoluzioni le capisci solo con il tempo». Ma per contagiare la nazione bisogna innanzitutto raggiungere i cittadini, diventare una presenza familiare, quotidiana, pervasiva, ineluttabile quasi, ed ecco che radio, televisione e social straripano di quell’“io” che Carlo Emilio Gadda, ne La cognizione del dolore, definì «il più lurido di tutti i pronomi», («Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta, come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona…»).

In una sorta di sindrome da dipendenza ambientale – come quella magistralmente messa in scena in Zelig da Woody Allen – vediamo la presidente del Consiglio urlare con Vox, abbracciare Biden, ridere di gusto con Modi, mangiare granchi blu nella masseria pugliese, andare in visita con la famiglia dal primo ministro albanese, recarsi al Gran premio di Monza e concedersi ai selfie degli ammiratori sottraendosi alla corporeità del Forum Ambrosetti, esibirsi in una gag sul saluto fascista davanti a giornalisti frettolosamente liquidati prima dello svolgimento a porte chiuse dell’assemblea nazionale del Partito, presentare il suo libro-intervista a Porta a Porta dove, assistita dal padrone di casa e dal direttore del “Giornale”, ossequiosi e paternalisti al tempo stesso, è statista, vicina di casa, mamma, sorella, ma anche quella che, se è il caso, ti aspetta nel vicolo («direttore, sia chiaro che non mi faccio intimidire dalle stese della criminalità organizzata»).

Una continua recita a soggetto. Un istrionismo che fu cifra del Duce, come spiegò magnificamente Alberto Moravia in un’intervista rilasciata a Gianni Bisiach nel 1978: «Se oggi sentiamo un disco di Mussolini, siamo colpiti non tanto dalla falsità delle cose che vengono dette, quanto dalla loro inesistenza, dalla loro mancanza di presa sul reale». Come quando, lo scorso 14 settembre, nella visita al premier ungherese Viktor Orban, abbiamo visto la presidente del Consiglio ergersi a difesa di Dio, della famiglia e dell’identità europea, salvo, il giorno dopo, nella feroce dichiarazione videoregistrata di guerra ai migranti, sintonizzarsi sulla modalità «due minuti d’odio», la pratica imposta dal governo del Grande Fratello orwelliano, in 1984, per cui tutti, sui posti di lavoro, negli incontri di partito, in strada, vengono chiamati da un altoparlante a raccogliersi davanti a un teleschermo per odiare il nemico supremo della patria.

Nel pomeriggio dello scorso 16 settembre, dopo la visita a Lampedusa con Ursula Von der Leyen, la presidente del Consiglio, finalmente a casa, ha raccontato con amore materno la festa per la figlia Ginevra, sul tema di Alice nel paese delle meraviglie. Viene in mente la risposta che il Gatto dello Cheshire dà ad Alice, quando gli chiede quale sia la via da seguire: «Dipende da dove vuoi andare». Sta a noi, oggi, saperlo.

Scrittrice, saggista e Presidente di Libertà e Giustizia. Si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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