Grazie all’ANPI per questo invito. Essere qui, per me, è essere a casa. E dove altro si potrebbe stare, quando in tutta Europa riemergono vecchi e nuovi fascismi? Quando in Italia – dove tutto è cominciato un secolo fa – gli eredi di quella stagione e della sua parte più tetra, la Repubblica Sociale Italiana, sono al governo, unico caso tra i grandi Paesi europei?
Eppure non parlerei, come molti hanno fatto in questi giorni, di un’onda nera. Siamo di fronte a una crisi della democrazia. L’Europa ha dimenticato i Trattati come l’Italia ha dimenticato la Costituzione, e in questa faglia si insinuano e crescono le destre estreme. L’Unione europea, che si dichiara “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, ha lasciato che a debordare fosse la sicurezza – intesa nella sua accezione più negativa, come costruzione di muri, respingimento, abbandono in mare, retoriche di guerra, interessi di lobby economiche. Ha lasciato che il Parlamento, sua unica istituzione elettiva, fosse messo all’angolo rispetto a Commissione e Consiglio, e che la società civile, motore della democrazia partecipativa promossa dai Trattati, fosse lasciata ai margini. Sta a noi ridare vita alle istituzioni democratiche, non lasciarle sfaldare, costringerle a vere politiche sociali, in ascolto dei reali bisogni dei cittadini; perché quando a prevalere sono gli interessi egoistici dei governi degli Stati membri, le retoriche populiste, le scorciatoie autoritarie, la destra appare forte, capace di convincere le persone sempre più impoverite e isolate a darle credito.
In Italia, nonostante un allarmante astensionismo, molti sono i segni di fratture e crepe che corrono nel disegno autoritario dell’estrema destra al governo, e al contempo di un risveglio democratico che si manifesta nel Paese. Un segnale importante è venuto dalle recenti elezioni amministrative, non solo perché sei capoluoghi di Regione su sei sono andati al fronte progressista, o campo largo, ma perché hanno mostrato che, dove si trovano figure capaci di unire su progetti condivisi, come a Perugia, a Civitavecchia, rinasce la partecipazione politica, la volontà di difendere la cosa pubblica, e crolla l’astensionismo.
Di fronte al risultato delle urne, la seconda carica dello Stato ha reagito affermando la volontà di cambiare la legge elettorale con l’eliminazione dei ballottaggi. La ratio è che le normative che non sono funzionali al potere della destra devono essere eliminate.
Una volontà tanto più problematica per chi, avendo mostrato un’attitudine plebiscitaria, afferma di volersi rivolgere direttamente al “popolo”; un’uscita che ricorda la celebra frase di Bertolt Brecht: «Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Anche le affermazioni della presidente Meloni mostrano una tensione contraddittoria: a cercare legittimità popolare, e ad essere al contempo indifferente alla volontà popolare, che sembra valere solo se a lei favorevole. Non dimentichiamo che, dando le spalle la galleria dei ritratti dei passati Presidenti del Consiglio, durante l’annuncio della “madre di tutte le riforme”, si è rivolta direttamente agli “italiani” con un video in cui magnificava la possibilità di scegliere da chi essere governati, anziché lasciare la scelta ai partiti – quasi che nei partiti non fosse cresciuta, e quasi che questa non fosse la base della democrazia rappresentativa.
Ma quando il cammino del “premierato” si è fatto più impervio, ha fatto ricorso a un’espressione che non lascia dubbi: «o la va o la spacca». Ovvero la determinazione a travolgere a ogni costo l’assetto istituzionale disegnato dalla Costituzione del ’48. Salvo poi, alla domanda se intendesse dimettersi in caso di bocciatura della sua riforma in sede di referendum abrogativo, rispondere “chisseneimporta”: un motto degli Arditi divenuto slogan del Ventennio, che afferma la volontà di restare al governo a qualsiasi costo.
Il rapporto con “il popolo”, quel “popolo” a cui ha chiesto di chiamarla per nome persino sulla scheda elettorale, al quale ha creduto di poter far accettare che la governabilità – questa posizione passiva, questa cambiale in bianco data per cinque anni – passasse per la delegittimazione, persino l’irrisione, del Parlamento, dei partiti, della figura del Presidente della Repubblica, e per la cancellazione dei Senatori a vita, non sembra funzionare poi così bene. Stanno a dimostrarlo la crescente affezione e affidamento al Presidente della Repubblica, e la mobilitazione spontanea dei democratici per contrastare il concorso delle tre riforme volute dal governo, disegnerebbe un assetto istituzionale capace di limitare i controlli e i contrappesi sul Potere esecutivo e sul Presidente del Consiglio. Anche a costo di rovesciare il tavolo, con radicali modifiche costituzionali in senso autoritario, e con la criminalizzazione dell’opposizione e del dissenso.
In questa logica, si inseriscono l’attacco frontale all’indipendenza e all’autonomia della Magistratura, perseguito con la riforma della Giustizia, in aperto contrasto con la normativa europea, e il ddl Sicurezza, che introduce il reato di rivolta penitenziaria, applicato anche alla protesta pacifica e non violenta. Con una pena fino a 8 anni di carcere e la perdita dei benefici penitenziari. Senza dimenticare l’emendamento che prevede di togliere all’autorità giudiziaria le indagini per tortura e violenze e affidarle all’avvocatura dello Stato.
Eppure proprio in questo procedere, in questa progressiva perdita della maschera, si vedono i segni di un cedimento: li si vede nelle scivolate rovinose di una classe politica spesso inadeguata, raccolta nella fretta di procedere all’occupazione di ogni minimo spazio di potere (dalla Rai alle istituzioni culturali, dall’Antimafia alle società partecipate) che ha avuto come ultima “hit” l’affermazione del ministro della Cultura, per cui la cosiddetta scoperta delle Americhe si sarebbe basata sulle teorie di Galileo.
Uno stillicidio, un florilegio che sarebbe divertente, non fosse tragico in un Paese tra i primi in Europa per abbandono scolastico e analfabetismo funzionale degli adulti.
Ma questa perdita di serietà, dove chiunque può dire enormità senza scusarsi, alla lunga non paga, in un Paese segnato da preoccupazioni che mettono a rischio il lavoro, la cura, la serenità della vecchiaia, il futuro dei figli.
Così come non paga la semina di proclami, goliardia, oscure minacce, vittimismo, frasi che alludono a slogan del Ventennio , come “tireremo dritto” – il magma cui Giorgia Meloni ci ha abituato, e che meriterebbe una nuova Fenomenologia, come quella di Umberto Eco – che ha raggiunto un nuovo stadio quando la presidente del Consiglio, reduce dallo smacco elettorale italiano e dall’ininfluenza nelle trattative per la scelta delle figure apicali dell’Unione europea, ha diramato un video che trasuda livore, non consono a chi rappresenta un Paese fondatore e tra le maggiori economie dell’Unione: la sinistra «incita alla guerra civile»; «c’è chi mi vorrebbe massacrata e appesa a testa in giù»; la sinistra «ha fatto liste di proscrizione dei parlamentari del Sud».
È un terreno di irrealtà, controproducente per il Paese, che rivela fragilità.
La forza – a questa destra – può dargliela solo la nostra indeterminatezza, la nostra divisione. Il nostro lasciare i cittadini e le cittadine in uno sgomento senza risposte.
Abbiamo davanti una grande battaglia, sapendo che il campo di gioco è truccato, invaso dalla volontà di affermare una democrazia “del capo”, una democrazia “decidente”.
Ma siamo avvertiti. Abbiamo già visto come, in Ungheria, la «democrazia illiberale» promessa dal primo ministro Viktor Orban in un discorso pronunciato nel luglio 2014, abbia preso compiutamente piede. In quel discorso, Orban affermava che i regimi autoritari – come quelli di Russia, Cina e Turchia – sono il futuro. «Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società», dichiarava. «Stiamo costruendo uno Stato volutamente illiberale, uno Stato non liberale».
Vale allora la pena di tenere sempre a mente le parole di Piero Calamandrei, ne Il fascismo come regime della menzogna: tra i partiti, «per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo», scriveva, «il quale è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità, attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri».
Per mettere in salvo i «logori ingranaggi della libertà» è necessaria oggi un’opposizione unita, che sappia parlare con le persone, che non le abbandoni alla semina di propaganda governativa e ai suoi linguaggi incattiviti e irresponsabili.
Dobbiamo tornare alle Vite minuscole, quelle raccontate da Pierre Michon. Come quella raccontata ieri da un amico su Facebook: dopo 26 ore sdraiato su una barella del pronto soccorso, l’anziano padre, finalmente dimesso, gli ha detto: «scusa, lasciamo così, non pieghiamo le lenzuola?»
Esiste un “popolo della Costituzione”. Pronto a tornare in piazza, senza temere il conflitto, senza abbandonare chi confligge. Senza perdere la tenerezza.